AFRODREAM  "La teranga"
   (2019 )

Laddove la lingua crea divisioni, la musica può creare un ponte tra i popoli. Su questa filosofia si fondano gli Afrodream, band torinese di sei elementi che mescola l’afrobeat con ritmiche sudamericane, in una soluzione pop. La calda voce principale è di Abou Samb, senegalese, al basso c’è Eddy Gaulen Stef della Martinica, alle tastiere ed al flauto l’argentino Ariel Verosto. Italiani gli altri tre: Luca Vergano alla chitarra, Simone Arlorio al sax e Jacopo Angeleri alla batteria. Fondati nel 2015, gli Afrodream hanno pubblicato due EP e questo è il primo vero LP: “La Teranga”. Undici canzoni che invitano al ballo, dove sentiamo più volte incisi di fiati che caratterizzano i pezzi, come “Djigen” e “Li geun ci rew”. In quest’ultimo, nel clima festoso, si alternano due fasi: una sognante, con tanto di solo synth che fa ricordare certi paradisi delle Orme, e una più “terrena” dove il piano elettrico rende tutto più croccante. Brani che si differenziano dagli altri sono “Ma cherie”, con chitarra acustica e marimba, senza perdere il mood, e “Imigre” (feat. Ibson Daone), che sfocia nel reggae. Alle parti cantate si alternano numerosi momenti strumentali, come gli assoli di sax e chitarra in “Bossou Dieng”. La melodia di “Mon ami” strizza l’occhio all’ascoltatore tipico di questo tipo di musica. Si fa notare la chitarra con dei continui arpeggi, ma qui emerge un tratto distintivo della band: i cori. Quando la melodia principale viene cantata in coro, l’effetto è quello di un abbraccio, qualcosa di avvolgente. Accade anche in “Mak djii”. Forse è qui che maggiormente si traduce in musica lo spirito inclusivo degli Afrodream. Infatti, il titolo dell’album “La Teranga” significa “accoglienza” in senegalese. Lontani dalla retorica politica con cui solitamente ci si bea di questo termine (o al contrario si creano paure inutili), la band cerca di renderla concreta, effettiva, e la musica da sempre è uno dei mezzi più efficaci, perché parla direttamente al cuore degli uomini, e li fa sentire più vicini. (Gilberto Ongaro)