LIQUIDARLO CELULOIDE  "Anamnesis"
   (2020 )

Peruviani, ben poco noti dalle nostre parti, i Liquidarlo Celuloide sono un quartetto originario di Lima, nome di spicco del rock indipendente sudamericano più oltranzista e disallineato.

Pubblicate per Buh Records e prodotte nientemeno che da Jaz Coleman, indimenticato leader dei Killing Joke, le sei tracce di “Anamnesis” danno forma all’undicesimo album di una carriera segnata da importanti affermazioni sia a livello locale che in campo internazionale, con la band impegnata nel ruolo di supporto ad artisti di prim’ordine (Acid Mother Temple, Moon Duo, Pharmakon tra gli altri).

Inclassificabili nel loro continuo oscillare fra asperrime suggestioni noise, divagazioni psych e spunti addirittura ballabili, le tracce di “Anamnesis” spiazzano e depistano come l’incessante vagare in un labirinto di specchi che confonde ed attrae.

Gli otto minuti e quarantatre secondi di “Asfixia” sono il biglietto da visita che sembra spalancare le porte degli inferi: torrida cavalcata elettrica stravolta da strati di distorsioni su un quattro quarti martellante tra Ministry, Yo La Tengo e Locust Fudge, una martellata stordente che procede come un bulldozer su pochi accordi ripetuti all’infinito in un’ossessione monocorde trafitta dal latrato sgolato di Juan Diego Capurro.

Nemmeno il tempo di riprendersi e i sei minuti scarsi di “Saliva” – inciso perfino catchy e passo quasi baggy alla maniera dei Franz Ferdinand (sic!) - ribaltano l’assetto generale facendosi strada lungo un bizzarro movimento meticcio che la voce filtrata ed il chorus improbabile sviano appena dal feeling pseudo-latino predominante.

“Erupciòn” è un ingorgo nevrotico à la Jesus Lizard, frenesia parossistica scossa di continuo da una ritmica fratturata e dalla partitura ubriacante della chitarra di Efrén Castillo. I sei minuti di “Perversiòn” – in inglese, affidata a Jaz Coleman, anche autore del testo – sono un vortice mortifero squassato dalla foga brutale del canto che dilaga sguaiato in un nuovo bailamme di distorsioni. La medesima violenza – amplificata dalle dilatazioni delle tastiere lungo un cul-de-sac dalle sembianze goth – è inscenata nell'intreccio di “Lluvia negra”, squadrata bordata assassina devastata dagli stop-and-go di matrice math che assecondano le liriche, preludio ai dieci minuti della conclusiva “Bajo el rio de neòn”.

La quale – ça va sans dire - manda all’aria tutto quanto il castello di carte in un interminabile ed immutabile reggae narcotico dalle tinte dub, l’epilogo che (non) ti aspetti di un album che (non) ti aspetti di una band che (non) ti aspetti. Bella sorpresa, da un angolo di mondo che (non) ti aspetti. (Manuel Maverna)