OVERLOGIC  "Delife"
   (2020 )

Il duo Overlogic pubblica “Delife”, un album intriso di new wave ed industrial attualizzato, denso di arpeggiatori che spesso la fanno da padrone, come in “Gaslighting” e “Waves”. Suoni freddi e levigati, ed una voce rotonda che riscalda, anche se a volte è equalizzata per sembrare che provenga da una stanza di cemento nudo, come in “The others”. “Skate” è quasi paradisiaca, pur parlando sempre di un paradiso elettronico. Un tempo medio che però alla fine viene raddoppiato e tutto si agita, mentre la voce ripete “nowhere, nowhere”. Ma veniamo ai brani scelti dagli Overlogic come singoli: “Pick, click, shit” ha un basso pulsante che è assolutamente ormonale, siamo in odore di Nine Inch Nails. Il testo dev’essere sarcastico verso certe abitudini internettiane: “Don’t give a view at the laptop, a lot of friends have been waiting”. L’altro singolo, “Whatever you may fear”, è un brano andante ed avvolgente, supportato da un videoclip dai colori sgargianti su una sagoma femminile che si muove su un piedistallo (una cubista al rallentatore?) ma i colori sono simili a quelli di una telecamera a calore. “Time-lapse” parte con un inciso maestoso, sembra che annunci l’ingresso di un re alla sua corte. A metà brano il basso sintetico si indurisce, innescando una fase danzereccia. Un interludio di un minuto e mezzo è “This can’t be fixed”, con suoni cangianti (ora tondi, ora taglienti). Ma l’esperimento più interessante di tutto l’album è il brano finale strumentale “Deframmentazione”. E’ fatto con due suoni: uno calmo e morbido, quello che noi tastieristi ignoranti chiamiamo “pad”. L’altro invece è un noise digitale in costante mutamento. Entrambi i suoni si sviluppano in contemporanea: il primo si apre portandoci nello spazio blu, mentre l’altro ci tiene ancorato alla tecnologia della navicella, culminando in esplosioni triangolari. “Delife” è un album che riesce ad allargare gli stretti confini dell’industrial sound, che spesso rischia di cadere in troppi cliché anni ’80, dandogli nuova freschezza. (Gilberto Ongaro)