MONJOIE  "Love sells poor bliss for proud despair"
   (2020 )

“Cerco la lingua, la lingua che scorre, che è dolce, che rotola magica e folle,
Dentro il cervello, e nella saliva, rivolta le note, spalanca la gola,
Nei linguaggi delle strade, delle osterie, nell'inchiostro dei dialetti che non vien via…”

(PFM, Cerco la lingua, DiCioccio-Mussida, da Jet Lag, Zoo Records, 1977)

Tranquilli: non avete sbagliato recensione, né gli scriventi si sono concessi un bicchierino di troppo :-)… Prima di entrare in medias res permettetemi di togliere qualche sassolino dalla scarpa con alcune considerazioni preliminari. Il testo del brano di apertura del lato B di Jet Lag (gran bel disco della PFM nella seconda metà dei Settanta) riportato in esergo, magistralmente cantato da “The Voice Impossible” Bernardo Lanzetti (talento assoluto del microfono), richiama l’importanza della lingua, organo della fonazione nonché veicolo della Langue intesa à la Ferdinand De Saussure (sistema di segni e significati che rendono la possibile la comunicazione verbale umana - guarda caso l’elemento distintivo del primate autodefinitosi Homo Sapiens): niente di più attuale!

Non si può certo dire, ahinoi, che oggi, almeno in Italia, la nobile Langue di matrice latina goda di ottima salute: stretta fra due temibili “virus” (siamo in tema), sta attraversando una preoccupante crisi d’identità che in assenza di cure efficaci potrebbe decretarne la fine.

Il primo “virus”, conseguenza del processo di digitalizzazione della vita (cfr. Andreoli, 2007; Bonazzi, 2014), riguarda l’espansione di un lessico impoverito (specie - ma non solo - nelle nuove generazioni, i cosiddetti “nativi digitali”) che procede a colpi di sms, hastag, like, “cinguettii”: frasi tronche, ridotte all’osso, formato slogan. Fenomeno preoccupante perché la contrazione del linguaggio si accompagna inevitabilmente ad una speculare contrazione del pensiero, confermando i timori espressi in tempi non sospetti da diversi studiosi (Lorenz, 1984; Costanzo, 1979, 1982, 1985) su una possibile “rudimentazione” della nostra specie (attenzione: non razza, termine privo di qualsiasi fondamento scientifico quanto pregnante sul piano storico-politico, cfr. Barbujani, 2006) accompagnata, paradossalmente, ad un progresso tecnologico senza precedenti.

Il secondo “virus” che ha infettato l’idioma italico (strettamente correlato al primo) ha a che fare con la progressiva invasione di vocaboli globish funzionali all’ideologia neoliberista sans frontières e al dilagare del politically correct (una delle facce odierne dell’ipocrisia), talmente diffusi nel gergo commerciale, politico e mediatico da evocare lo spettro di una neolingua mirata alla costruzione di un pensiero unico di orwelliana memoria. Non c’è bisogno di scomodare Michael Foucault per evidenziare le inquietanti connessioni fra ingegneria sociale, indottrinamento delle masse e potere: come scrive nel suo ultimo libro il geniale filosofo francese (fuori dal coro) Michel Onfray (2019): “Nell'ottica di una semplificazione della lingua, la strategia migliore consiste nel procedere con le lingue nello stesso modo in cui si procede con le parole: attraverso la riduzione. Se l'abbondanza delle parole e la finezza della grammatica costituiscono la ricchezza di una lingua, a loro volta le lingue, grazie alla loro diversità, producono ricchezza del pensiero e assicurano la comprensibilità del mondo in modi diversi e molteplici. È in fin dei conti questo il motivo per cui «l'inglese [...] serve alla comunicazione»: con una sola lingua, la prospettiva di un solo pensiero diventa più facile da realizzare” (pp. 68-69).

Uno dei possibili antidoti a questa dilagante asfissia culturale che rischia di trasformare l’Homo Sapiens in un Cyborg asservito al Grande Fratello consiste nella (ri)scoperta e nella (ri)valorizzazione di quella Parole espressione della Langue (per tornare a De Saussure), atto linguistico in grado di fornire una “descrizione densa” (scomodo l’antropologo statunitense Clifford Geertz) e quindi di forgiare e nutrire quella capacità simbolica che ci differenzia dal regno animale, restituendo così al pensiero tutta la sua profondità espressiva, riflessiva ed esplorativa.

Salutiamo quindi con particolare apprezzamento questo nuovo disco dei Monjoie che, proseguendo sulla scia di un progetto avviato nel 2018 con And in thy heart inurn me, riprende i testi di tre giganti della poesia britannica della prima metà dell’Ottocento, John Keats, George Byron e Percy Bysshe Shelley, con rimandi alla grecità classica. E in questo caso cadono i presupposti delle interminabili e concitate discussioni sulla scelta delle rock band italiane di cantare in inglese: qua la lingua di Albione è (pressoché) d’obbligo. Magari, con l’auspicio che nei prossimi dischi la band ligure attiva da oltre venti anni possa attingere al magico pozzo della letteratura italiana… E la musica? Entriamo in media res passando la parola all’amico e “fido progster” AlbeSound.
(MauroProg)


-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------


Quinto lavoro per i Monjoie questo Love sells poor bliss for proud despair. Il CD, già dalla sua veste grafica, tratta da un dipinto di Giovanni Pazzano, lascia intravedere la musica suggestiva racchiusa all’interno del disco, composto da 11 brani di cui il primo Ode on a Grecian Urn è suddiviso in cinque parti.

L’inizio è molto leggero, etereo, assolutamente rilassante, intriso di una morbidezza melodica impreziosita da venature di stampo celtico, cui fanno seguito nelle successive tre parti sonorità più orientaleggianti che ne accentuano la delicatezza dei suoni dando una sensazione di grande pace e distensione.

La quarta parte è una più classica ballata che riesce però a mantenere viva la dolcezza e l’atmosfera sognante. Il finale allenta un po’ la magia mistica con suoni che frenano il viaggio interiore intrapreso concludendone il percorso contemplativo.

Gli altri brani sono più elettrici e riconducono ad un ascolto più “terreno”; belli gli arrangiamenti dati ai testi tratti da poesie di John Keats, George Byron e Percy Bysshe Shelley e molto ben interpretati dal vocalist Alessandro Brocchi che, con la sua voce calda ed intensa, ne valorizza la liricità.

Disco molto distensivo con una efficace musica d’insieme, priva di singoli virtuosismi strumentali, ma dal grande fascino spirituale. (AlbeSound)

MONJOIE:
Alessandro Brocchi: voce, chitarra classica, elettrica, tastiere, tampura
Valter Rosa: Chitarre acustiche ed elettriche, bouzuki
Davide Baglietto: Flauti, tastiere, musette del berry
Alessandro Mazzitelli: Basso, tastiere, programmazione, percussioni
Leonardo Saracino: Batteria e percussioni

Altri musicisti:
Edmondo Romano: Sassofoni e clarinetti
Fabio Biale: Violino
Matteo Dorigo: Ghironda
Alessandro Luci: Basso fretless
Simona Fasano: Voce recitante
Lorenzo Baglietto: Musette del berry

Riferimenti
Andreoli V. (2007), La vita igitale, Rizzoli, Milano.
Barbujani G. (2006), L' invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Bompiani, Milano.
Bonazzi M. (2014), La digitalizzazione della vita quotidiana, FrancoAngeli, Milano.
Costanzo G. (1979), Il cervello povero, Ecig, Genova
Costanzo G. (1982), Dal simbolo al gene: antropologia del difetto inculturativo, ETS, Pisa.
Costanzo G. (1985), I rudimentati, ETS, Pisa.
Lorenz K. (1983), Il declino dell'uomo, Oscar Mondadori, 1994
Onfray M. (2019), Teoria della dittatura, tr. it. Ponte alle grazie, Firenze, 2020.