IVANO FOSSATI  "Ventilazione"
   (1984 )

I motivi per cui Ivano Fossati ha ripudiato il suo antico successone “La mia banda suona il rock” sono svariati e risiedono nella sua mente. La mia ipotesi al riguardo è che questo famigerato brano non sia stato solo un tormentone, e come tale (giustamente) estraneo alla logica di Fossati, ma anche una specie di “luogo comune musicale”, una specie di etichetta rock rimasta appiccicata a questo eclettico cantautore, anche quando ormai si era trasformato in un raffinatissimo alchimista di suoni. Ma siccome i luoghi comuni contengono un fondo di verità, si può dire che questa etichetta rappresenta abbastanza bene le prime fasi della sua carriera, dalla gavetta “progressive” con i Delirium all’album “Ventilazione” (1984), vero e proprio canto del cigno del Fossati ritmico. Acclamatissimo dalla critica, questo disco è uno dei più energici e tirati che abbia mai proposto un cantautore italiano, a meno che tra i cantatutori non si vogliano includere veri e propri “rockettari”, peraltro di dubbio valore, come Ligabue e Piero Pelù. Non più “un rock bambino, soltanto un po’ latino” (per citare l’autore), ma una musica forte e decisa, dal ritmo costante e sostenuto, sfondo ideale per i testi, fondati quasi sempre su immagini di viaggi. Quasi un concept-album sul viaggio, che insieme al mare è da sempre il chiodo fisso di questo autore (il viaggio per mare chiaramente è il massimo). Pochissimi i momenti di riflessione; per il resto le bacchette di Elio Rivagli si abbattono senza pietà sulla batteria con poderosi schianti, il basso di Guido Guglielminetti pulsa come un pistone e la nervosa chitarra elettrica di un Ivano non ancora convertito al pianoforte tiene il passo dei due compagni di banda, ai quali si aggiungono vari ospiti, alcuni anche prestigiosi. Tutta questa energia è regolata da tecniche particolari, come l’uso di ambienti esterni allo studio di registrazione per particolari effetti spaziali, e si sa che queste cose mandano i critici in brodo di giuggiole ben più della sostanza, che è comunque un “sound” internazionale, ben più moderno rispetto agli standard cantautoriali italiani. Quasi come saggio di convivenza tra il Fossati “ruspante” e quello più sperimentatore, ecco una breve ma preziosa “Introduzione” strumentale, con colti giochi di contrappunto tra due tastiere (Ivano stesso e Gilberto Martellieri) che sprigionano un piacevole timbro metallico e secco, quasi una via di mezzo tra le “tubular bells” di oldfeldiana memoria e un campanaccio da mucca svizzera. L’entrata della sezione ritmica squarcia in un attimo questa trama: parte a razzo “Ventilazione”, una “libecciata rock” con violente folate che si susseguono e ci sbattono in faccia messaggi più o meno cifrati, ma tutti segnati da una pressante necessità di “cambiare aria” in ogni senso, reale o figurato. Un modo per farlo può essere viaggiare, ma a questo punto “Viaggiatori d’Occidente” ci mette in guardia contro i facili sogni di terre lontane, che contribuiscono ad allontanarci dalle persone care. “Lei pensa alle terre greche e a una maggior fortuna, mentre in fondo a Bleecker Street lui sta aspettando quella luna”: ecco due viaggiatori separati da un’incomunicabilità rappresentata da “lunghe pause al telefono da un altro continente”, e tanto per metterci una citazione davvero dotta si potrebbe dire “ognuno in fondo perso dentro ai fatti suoi” (Vasco Rossi, nientepopodimeno). Chitarra, basso e batteria mulinano inesorabili, anche se con cadenze pacate rispetto alla successiva “La locomotiva”, che in comune con l’epico ballatone gucciniano ha solo il titolo. Presa in prestito dal chitarrista Adrian Belew (“The Rail Song”), è un’impressione al limite dell’onomatopeico: ad un certo punto il ritmo sferraglia all’unisono con il rumore di questa poderosa macchina di cui si cantano le gesta (“della bellissima voce di lei, dei suoi lunghi segnali soffiati…”) ormai lontane. Prima e opportuna pausa: “Il pilota”, ovvero il viaggio che si fa routine. Fatica e tensione soltanto “per vedere Linate diventare Pavia”; niente a che fare con il visionario e poetico Lindbergh chiuso nella sua cabina in mezzo alle stelle, celebrato una decina di anni dopo. La riflessione si svolge su un tappeto di morbide percussioni e dolci tastiere, quasi una finestra aperta sul Fossati che verrà. Poche suggestive note di synth e parte una scioccante versione rock di “Boogie”, storico jazz firmato Paolo Conte, una versione che l’autore sembra non aver gradito più di tanto. In effetti la ritmica serrata fa un po’ a cazzotti con il quadro deliziosamente rètro del testo, ma il brano tutto sommato scorre bene, dando il meglio di sé nel finale, con la tromba di Flavio Boltro che compete alla pari con la chitarra elettrica di Phil Palmer, quasi a voler dimostrare che uno strumento tipico del jazz può adattarsi benissimo ad un assolo sfrenato, di chiaro stampo rock. Si continua a viaggiare con “Fuga da Sud Est”, poche e concitate parole lasciateci in fretta da un fuoriuscito in fuga, finché non ci ferma il magico eco delle tastiere-vibrafono di “Parlare con gli occhi”, ed eccoci quindi a condividere i pensieri di un certo Gianni, che guida distratto, tormentato soprattutto da un pensiero (“amore amore… avessi accarezzato la tua idea piano col tempo avresti preso anche la mia mano”), una spina nel fianco attutita dalla tenerezza della musica. Il motore ricomincia a girare veloce con l’enigmatica “Le grandi destinazioni”, il cui attacco ha davvero qualcosa della partenza di una ruota, e a questo punto Ivano, che ha percepito il nostro affanno, ci congeda con una sorta di camomilla musicale come “Buona notte, dolce notte”, con tanto di nenia araba finale, che a dire il vero sembra attaccata al brano in modo posticcio. Si sente che il Fossati etnico di “Macramè” è ancora parecchio lontano, ma questo disco nel complesso si fa ascoltare moto bene, e con la sua insolita vitalità può risultare gradito anche a chi non è un cultore di questo valido musicista. (Luca "Grasshopper" Lapini)