DEADBURGER FACTORY  "La chiamata"
   (2020 )

Album che fa della complessità ritmica e sonora la propria ragion d’essere, a costo di apparire autocompiaciuto e vagamente elitario - benchè trasudi in realtà solo una smisurata passionalità applicata a materiale sottilmente ostico -, “La chiamata” ripresenta su label Snowdonia Records i Deadburger Factory, band oramai assurta ad uno stato iconico e oggetto di culto più o meno sotterraneo da quasi un quarto di secolo.

Soltanto per snocciolare l’elenco dei prestigiosi musicisti impegnati nelle sessions (fra gli altri cito Bruno Dorella, che amo e seguo da una vita, e Lalli dei Franti) o per esaltarne la veste grafica, l’architettura concettuale e la valenza progettuale occorrerebbe trattazione a parte; per ora, basti sottolineare come Alessandro Casini, Vittorio Nistri, Simone Tilli e Carlo Sciannameo riescano nell’impresa di rimescolare una volta di più la forbita amalgama di generi, sottogeneri, stili e idee che da sempre ne contraddistingue l’opera.

Trascorsi sette anni dal triplo “La fisica delle nuvole”, moloch che aveva spostato parecchio avanti il concetto di avanguardia chez nous azzardando oltre ogni ragionevole dubbio, “La chiamata” sottende un enorme lavoro di analisi, stesura e rifinitura, sublimato nell’incessante ricerca di un linguaggio di sintesi capace di miscelare disparate istanze in un crogiuolo di ribollente creatività, parto di un ensemble indefinibile ed incatalogabile a priori.

Sperimentale, colto e coraggioso, “La chiamata” rende semplice il difficile filtrandolo attraverso il prisma dell’urgenza espressiva: per raggiungere lo scopo, si incunea in un dedalo di soluzioni che cesellano brani avulsi da sviluppi lineari, composizioni cangianti che si baloccano con variazioni ritmiche, cambi di tempo, stratificazioni strumentali ed effettistica funzionale allo scopo. Che resta quello di dare sfoggio di una ben comprovata abilità tecnica – tutti i brani sono eseguiti con doppia batteria, tanto per gradire - e di una invidiabile abilità nel portare a spasso canzoni inafferrabili lungo sentieri poco battuti, alla scoperta delle potenzialità di questa musica contorta, ma curiosamente godibile (un po’ il punto di vista dei vonneumann - ma meno cervellotico - o di un Giovanni Succi – ma non così estremo).

In apertura ed in chiusura, spiccano gli episodi che meglio sfumano il confine tra la suggerita fruibilità erga omnes cui talvolta mirano ed il taglio da hortus conclusus che pervade le trame più ostiche: “Onoda Hiroo” – l’ufficiale che fu tra gli ultimi soldati-fantasma giapponesi ad arrendersi decenni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale - inizia quasi come un brano dei C.S.I. per deflagrare di lì a poco in una nebulosa di elettricità disturbata incanalata in un ritornello marziale e beffardo; in coda, i nove minuti e mezzo di “Blu quasi trasparente” assumono sembianze di canzone, ma ritornano ben presto sui propri passi, infilandosi in un cunicolo di fiati sorretto dall’ennesimo rutilante drumming, preludio alla reprise atmosferica del finale, sospeso e trasognato.

In mezzo, esplosioni di estrosità che rovesciano come un calzino questo piccolo mondo astratto: “Un incendio visto da lontano” è un mirabile tentativo di fondere jazz ed un ritornello pop sulle ali di un pianoforte agitato, di un recitativo inquieto, di una voce filtrata ad arte; la title-track è nevrotica frenesia con stralci di canto à la Manuel Agnelli ed un florilegio di fiati ad incorniciare un mood filmico che ricorda i Calibro 35.

Tra pregevole world-music contaminata (“Tamburo sei pazzo”, con Alfio Antico), fratture, divagazioni, accenti progressive (“Manifesto cannibale”, con un bel testo fieramente evocativo) ed una versione bruscamente istintuale, quasi prosciugata, di “Tryptich” di Max Roach, privata di ogni orpello quasi a lasciarne esposto lo scheletro, va in scena un autentico, paradossale trionfo della forma informale che esalta il fascino ancestrale del ritmo e ne accresce il groove forsennato.

Disco opulento, espressione profonda – ragionata, ma sincera – di una band senza padri nè figli, “La chiamata” farà la gioia dei musicisti che vi si accosteranno, così come delle menti più aperte a lasciarsi possedere da suoni, strutture e progressioni non convenzionali. (Manuel Maverna)