HIROSHI.  "Anything"
   (2020 )

Il bello di invecchiare è che puoi permetterti di apprezzare davvero dischi così.

Di amarli - addirittura - senza freni né remore, senza dover giustificare il perché o ascriverli per forza ad un genere, contestualizzare, sviscerare, comprendere. Senza urgenza, senza pressioni.

Puoi lasciarteli scivolare dentro, concedere loro di comandare prendendo possesso dei tuoi ricordi, goderteli mentre fai la doccia o restando a letto un po’ di più una domenica mattina, non per questo sentendoti a disagio per non averli classificati, analizzati, valutati. Puoi ascoltarli, e basta.

Hiroshi. sono un quartetto marchigiano non più in verdissima età, al debutto lungo per Nufabric Records con le nove tracce di “Anything”, trionfo di placida afflizione declinata in un linguaggio ben noto, rielaborato sì seguendo le coordinate che portano inevitabilmente a shoegaze e dream-pop, ma plasmato in fogge inusuali e confidenziali, come nei rigurgiti psichedelici di “Lost highway” o nelle fughe dilatate di “Run ran run”.

Ad esempio, una cosa di cui subito perdutamente innamorarsi sono le atmosfere rilassate - quelli bravi le definirebbero laid-back – che ne fanno un album solare, luminoso, sconfinato come gli spazi che ti schiude davanti. Ha squarci di melanconia ovunque, ma ricama scintillii di chitarra (“Days”) che si mangiano in un boccone anche le storie più amare, come quella di “Isolation row”. Che racconta di un addio, di un fallimento, di una perdita o di quello che si vuole, ma lo fa con un mezzo sorriso e con tutta la distensione di chi passa sopra alle cose della vita, sempre salendo, mai infilandosi in un tombino o seppellendosi prima del tempo.

Ecco, ad esempio un’altra cosa della quale profondamente invaghirsi sono i testi. Brevi, ermetici, affidati ad un canto spesso filtrato da effetti. Accenni di storie sfilacciate, immagini, piccoli brividi, memorie sparse. Parole semplici nascoste in parte, piacevoli da scoprire durante il cammino, mentre riecheggiano facendosi esse stesse suono. Suono aggiunto a quelli ampi e dilaganti che incorniciano questo pugno di canzoni indefinite, fluttuanti, teneramente liquide, aggrappate ad emozioni più che a strutture.

Tra vagiti radioheadiani (“Shapes”) ed un moog imperioso (“Mountains”), affiorano dalla bruma brani che ondeggiano tra i riverberi delle chitarre come ombre nella nebbia, volutamente perdendo forma e consistenza per vagare in assoluta libertà. Quella che guida chissà dove i vocalizzi di “Float” (quasi Pat Metheny!), che parole sembrano ma non sono, mentre simulano il canto ammaliando come sirene.

A doverla proprio dire tutta, il mood prevalente mi ricorda quello dell’enorme “Is the is are” dei DIIV, quando ancora Zachary Cole Smith faceva massiccio uso di qualche sostanza non esattamente consentita dalla legge e riusciva a proiettare l’ispirazione ben oltre la ragione.

Noi restiamo pur qui a discettare dei massimi sistemi: nel frattempo, in “Anything” tutto scorre meravigliosamente impalpabile, inconsistente, diafano. Come la nuvola in copertina, ora c’è, tra poco potrebbe dissolversi, lasciandosi alle spalle poco più di un fremito, una sensazione, un palpito.

Forse una mera illusione, ma così dolce e lieve da godersela fino in fondo. (Manuel Maverna)