ANGELE DAVID-GUILLOU  "A question of angles"
   (2020 )

Con la giusta disposizione d’animo, di questo disco ci si può ubriacare, come di un nettare prelibato.

Tre anni dopo “En mouvement”, che segnò la rinuncia alla parola in nome di una rinnovata comunione con una forma di comunicazione non immediata, ma deliziosamente coinvolgente, suadente, fascinosa, “A question of angles”, pubblicato di nuovo per Village Green Recordings, riparte da dove il suo impegnativo predecessore aveva scelto di arrestarsi.

Angèle David-Guillou, compositrice e musicista transalpina attiva da vent’anni attraverso svariati progetti e successive reincarnazioni, continua ad inseguire una integrità non soltanto formale, lavorando stavolta per aggiunte, anzichè per sottrazione. Sei tracce in purezza a ricamare un inno di cristallina ricercatezza sublimato in brani che per comodità ascriveremo ad un ibrido tra neoclassicismo e musica contemporanea delineano il profilo di un album maestoso, attraente nella sua complessità mai artefatta, accondiscendente nell’offrire appigli ai quali aggrapparsi in cotanto mare magnum di imperiosa, impetuosa ispirazione.

Spinosa ma intrigante la costruzione, che vede all’opera due diversi ensemble: un ottetto di sassofoni ed un settetto d’archi, intreccio che dà vita ad un piccolo mondo antico, regno fiabesco dell’irrealtà sospeso tra movimenti minacciosi, sinistri, incombenti (“Valley of detachment” in apertura, percussioni incalzanti ed echi di Dukas) e suggestioni cinematografiche, quasi i brani fungessero da soundtrack ad un film che non c’è (la martellante title-track, straziata dal violoncello ed agitata dalle contorsioni ondivaghe del theremin).

Pianoforte e vocalizzi dominano i sette minuti di “Absolutely not”, mentre gli archi contrappuntano il minuetto incalzante di “Akrotikiri” in un caleidoscopio di misurata contrizione, sapientemente architettata e dosata con la minuziosa cura del perfezionismo. In coda, restano il sommesso singhiozzare sullo sfondo diafano di “Forgetting trees”, manifesto di raccolta afflizione incorniciata da un tempo dispari e dalle note avvolgenti dei fiati, ed il commiato dimesso, rigonfio di corale abbandono, di “Quid pro quo”, sfuggente mestizia che cala il sipario su un disco capace di elevare raffinatezza ed alterità a tratto distintivo. (Manuel Maverna)