CHARLIE RISSO  "Tornado"
   (2021 )

Questa perla di disco – mezz'ora secca, otto canzoni – mi ricorda talmente tante cose che mi verrebbe voglia di abbracciarlo.

Ogni brano assomiglia a qualche stralcio che ho già sentito in giro, ma sono certo che Charlie Risso non se la prenderà a male, e per me non è un problema, anzi: l’importante è il risultato, che è una delizia sopraffina.

Cioè, non è che per forza ci si debba inventare il timballo di lumache con coulisse di zenzero e fiori eduli per definirsi grandi chef: può bastare un’amatriciana, ma che sia fatta da dio.

Ecco, con i concetti ho finito.

Da qui in poi il merito vada solo a Charlie Risso, a cui sia lode per questo flusso ininterrotto di musica semplicemente bella. Ampia, diretta, sfavillante. Una cornucopia di idee che tradiscono ispirazione inesauribile, melodie sparse ovunque come ne avesse all’infinito da regalare agli astanti, disseminando a piene mani piccole gemme sotto forma di canzoni concise, coinvolgenti, intriganti.

Divisa in parti non eguali tra Genova – di cui è originaria – Milano e Londra, sempre per la genovese Incadenza, associazione culturale più che vera e propria etichetta discografica, Charlie pubblica “Tornado” a quattro anni di distanza dall’esordio di “Ruins of memories”, disco che poteva già vantare invidiabile maturità e personalità interpretativa; introdotto dal pregevole artwork di copertina di Jemma Powell e supportato (atout determinante per la credibilità finale del prodotto) da una pronuncia dell’inglese impeccabile che ne amplifica la vocazione internazionale, “Tornado” è declinato in un registro vocale che ricorda in più occasioni la compianta Dolores O’Riordan, particolarmente nella title-track, gioiello da quattro minuti di una bellezza talmente cristallina da non poterli nemmeno raccontare.

Avvolto in un’aura melanconica amplificata ed acuita dalle atmosfere struggenti che suggerisce, l’album vive sulla simbiosi tra armonie corpose ed indole umbratile: l’operazione è sublimata nell’arpeggio à la Girls In Hawaii di “Lord of misrule”, che dilaga in una ballata depressa degna di Emilie Zoè, nello slow retrò di “Nothing at all”, nella svenevole aria à la Fleetwood Mac di “Crossroads”, impreziosita da tessiture chitarristiche memori dei Cure e ravvivata da un pattern ritmico aggiornato ai tempi.

A troneggiare su questo mare magnum di creatività pura e sincera - mai artefatta o forzata - rimane una patina di mestizia, ben identificabile nel tragitto che unisce in linea retta l’oscuro pulsare di “Dark” in apertura e la dilatazione in stile This Mortal Coil di “We’re even” in chiusura, spenta poco a poco in una coda di note incupite. Celata sotto un tappeto di chitarre, la pur godibilissima bordata shoegaze di “It makes me wonder” suona allora quasi eccessiva nel contesto generale, che si conserva intimo, riflessivo, morbido, perfino tempestosamente romantico a tratti, ma docile e mansueto. Quella che innerva il mood di “Hollow town” è forse l’identità più profonda e autentica di Charlie Risso, qui simile ad una Ane Brun che canta un brano di Loreena McKennitt, assecondando un insistito fingerpicking con la grazia e la naturalezza che si convengono alla sua arte duttile, fascinosa, avvolgente. (Manuel Maverna)