COLLETTIVO GINSBERG  "Kintsugi"
   (2021 )

Andare oltre la superficie delle cose, grattare la patina che le ricopre, svelare qualcosa rimasto celato ai sensi, sordo alla conoscenza.

Scostare un velo, poi un altro, un terzo ed un quarto senza ancora arrivare all’epifania del pensiero originario che guida la sete della scoperta.

Dal debutto del 2008, “Kintsugi” è il settimo album del Collettivo Ginsberg, creatura di Cristian Fanti, affiancato da Andrea Rocchi, Alberto Bazzoli e Marco Frattini, con la produzione artistica di Marco Bertoni; arriva a ben cinque anni da “Tropico” per la romagnola Ribéss di Giulio Accettulli – che pubblica poco, ma spesso bene: vedi Righini, Pieralberto Valli, Hazy Loper.

Al primo ascolto – il primo velo – a colpire è un insistito elogio della lentezza, come scene viste alla moviola dietro un vetro opaco, ma l’impressione surretizia è che oltre questa stasi vagamente psych alberghi una ricchezza da scoprire.

Insistere, credere, sollevare il secondo velo, prodromo dell’incantesimo.

Talora privo di parapetti, scevro di strutture che ne incasellino le trame preziose entro gli angusti limiti del ritmo e delle battute, ha qualcosa dei Dorian Gray, di Samuele Bersani (“Chiedi alla polvere”), dei Piccoli Animali Senza Espressione, di Paolo Benvegnù (“Sentiremo il sapore”, tratta da una poesia di Bukowski, tre minuti in minore che strizzano l’anima), di Giancarlo Onorato, perfino dei CSI (“Kintsugi”); attrae e coinvolge quel suo modo timido ed introverso di nascondere un sentimento tra le maglie di testi brevi, ermetici, scarnificati all’osso, ma intrisi di visioni racchiuse in singole parole, in versi quasi epigrammatici in cui giace dormiente il prossimo racconto.

A partire dal titolo, elogio dell’imperfezione eletta a nuova gloria attraverso la redenzione, “Kintsugi” si insinua avvolgente tra le maglie di un languido intimismo, appena scosso dal tribalismo di “Notturno” - che procede come fosse una outtake di “Crêuza de mä” - o dal ricorso sporadico a cadenze screziate da una bellezza sottile, fragile, impalpabile.

In un percorso circolare che inizia dalla melodia smarginata di “Al chiaro di luna” e termina negli otto minuti altrettanto privi di bordi de “La grande nevicata del ‘12”, Fanti & soci indulgono all’afflato poetico di liriche cesellate come miniature (“Una calma apparente”, echi di Montale), altrove stringendo invece nella morsa di un battito ossessivo immagini colte nella loro istantanea fissità: fustigata da un pianismo algido e minimalista, la title-track arranca col suo sussurrare evocativo, occultato dal profluvio invadente di un’armonia ampia, celestiale, morbida.

Lassù in alto, oltre le spire di fumo di “Footnote to howl”, bonus-track che chiude musicando l’omonima poesia di Allen Ginsberg sul recitativo dell’autore stesso, rimane ad aleggiare la tentazione finale: sollevare l’ultimo velo, cercare il sogno, volerlo rivivere, penetrarlo di nuovo, alla ricerca di qualcosa ancora da scoprire. (Manuel Maverna)