VAN MORRISON  "Moondance"
   (1970 )

Due anni prima aveva spiazzato critica e pubblico con quel flusso inarrestabile di pensieri in musica e parole chiamato “Astral Weeks”, che all’epoca non fu un campione di incassi, ma in seguito sarebbe diventato uno di quei dischi che lasciano una traccia indelebile nella storia della musica.

La logica avrebbe voluto un tentativo di clonazione, ma per fortuna Van Morrison con la logica non c’è mai andato troppo d’accordo: lo stesso disco precedente ne è una prova, e in seguito lo avrebbero dimostrato le svolte a zig-zag della sua lunghissima carriera.

Ecco quindi “Moondance” (1970), capolavoro quasi al livello del precedente, ma di impostazione totalmente diversa: sereno, brillante e “compiuto” quanto l’altro era agitato, profondo e “indefinito”. Al posto delle lunghe ballate ipnotiche e dei vortici impetuosi che fondono le voci degli strumenti, ecco una serie di brevi gioiellini della durata di una canzonetta o poco più, una pulizia assoluta e quasi maniacale del suono, assoli cristallini di pianoforte e di sax, dispersione quasi totale delle nebbie dolci e avvolgenti dei fiati, specialmente del flauto, grande protagonista in “Astral Weeks”.

Questa maggiore trasparenza fa risaltare ancora di più le basi strutturali della musica di Van Morrison, le sue radici blues, soul e jazz, pilastri che ora appaiono nella loro nudità. Se questo è un bene o un male dipende dai gusti: per quanto mi riguarda ho una leggera preferenza per la profondità di “Astral Weeks”, il che non mi impedisce di apprezzare appieno la cantabilità di “Moondance”.

Cantabilità che purtroppo non è sfuggita neanche ad un “giovane marpione” come Michael Bublè, che ha ripreso la splendida title-track, un perfetto swing con ineccepibili assoli di piano e di sax, per farne una versione che, pur rimanendo abbastanza rispettosa, suona piuttosto grigia e banale. Il lato positivo della cosa è che forse una parte del pubblico di Bublè si incuriosirà e vorrà conoscere questo Van Morrison, oscuro autore di “Moondance”. In tal caso l’operazione sarà servita a qualcosa.

Quando uno è in stato di grazia, di esaltazione mistica, basta che vada con un amico a pescare per ricavarne una serie di sensazioni magiche, ma poi c’è modo e modo di esprimerle. Tra i modi migliori c’è “And It Stoned Me”: ingenuo stupore (“Oh, the water…”) in un cuore pieno di soffici melodie di piano e sax. Impressioni visive e uditive, felicità intraviste e subito captate, come in “Caravan”, dove la brusca voce di Van esprime il bisogno urgente di fissare un motivo (La la la …) appena intuito insieme al passaggio di una carovana di zingari felici.

Ogni vibrazione positiva sembra essere preda delle antenne di “Van the Man”, che poi a sua volta invita anche noi a “fiutare il mare e sentire il cielo, lasciar volare l’anima e lo spirito nel mistico”. Per farlo può essere d’aiuto un bel giro di basso, insistente e ipnotico, come quello su cui è costruita “Into The Mystic”. Ma le occasioni per far spiccare il volo alla propria anima sono infinite, e Van Morrison ci permette di scegliere il mezzo che ci è più congeniale: chi vuole può seguire beato la scia di limpide note lasciata dalla splendida “Brand New Day”, o farsi cullare dalla delicatezza della romanticissima “Crazy Love”, con il dialogo quasi sussurrato tra chitarra acustica e basso, o gasarsi con i ritmi più spediti e “neri” di “Come Running” e “Glad Tidings”, o ancora immergersi nel blues canonico di “These Dreams Of You”, o perfino farsi portare indietro nei secoli dal clavicembalo e dal flauto di “Everyone”.

Nel complesso il secondo capolavoro di Van Morrison è una serie di nitide istantanee di uno stato d’animo che nella vita capita di rado, colte da un fotografo fortunato che era lì al momento giusto. Approfittarne e condividere questa gioia ascoltandolo è quasi doveroso. (Luca "Grasshopper" Lapini)