TROND KALLEVAG  "Fengselsfugl"
   (2021 )

Ricordo che stavo avendo veramente uno schifo di giornata.

Era pure un pomeriggio grigio e i colleghi potevano ringraziare lo smart working che me li teneva a distanza, altrimenti sarebbe finita in rissa vis-a-vis. Ricordo di avere chiuso la mail e di essermi applicato con dedizione a svolgere alcune operazioni che non starò a descrivere nel dettaglio, ma che erano rivolte a risolvere un bel problema.

A volte mi aiuta isolarmi con le cuffie nelle orecchie mentre faccio cose, eccetera. Non mi distrae, anzi: paradossalmente mi aumenta la concentrazione. Arrabbiatissimo, ho premuto play su “Fengselsfugl”, nuovo album per Hubro Records del chitarrista norvegese Trond Kallevåg a due anni di distanza dall’apprezzato debutto di “Bedehus & Hawaii”. Sono sincero: ero diffidente, non nutrivo grandi aspettative.

E invece come di colpo il pomeriggio mi si è rasserenato.

Cioè: ha cominciato a diluviare, ma pazienza.

In cuffia, ha iniziato a fluire una musica talmente soave e distante da non lasciare spazio a brutti pensieri. Musica tra – non saprei – neoclassica, jazz, contemporanea, folk. Alla base: chitarre. Di contorno: percussioni, pianoforte, contrabbasso. Tutto intorno: un mondo fatto di colori, suggestioni, costruzioni astratte, emozioni sul filo di note distillate ed atmosfere impalpabili.

In un viaggio di quaranta minuti compreso fra la tenue melanconia in minore di “Til fengselet jeg vandrer” in apertura e i mutevoli sette minuti e mezzo della conclusiva title-track, passando per le movenze western di “Cowboy og Indianer”, l’ambient di “Brevet” con la sua morbida quiete o l’adorabile mestizia di una “Desember” che mi ricorda tanto il Pat Metheny più riflessivo, va in scena una musica per immagini inafferrabile ma brillante, sfuggente ma fascinosa.

Musica evocativa, suadente, l’equivalente di un soundtrack per il film che vuoi.

Ogni traccia a disegnare scenari.

Musica pacata, soffice come crema, svenevole addirittura, intrisa di un palpitante romanticismo a metà strada tra il piano-bar e un album dei Ronin, rigonfia di una pura, scintillante, splendente bellezza.

Triste, in fondo, ma di quella tristezza che indulge alla malinconia senza esagerare. Non drammatica: semplicemente languida.

E tra un ballabile sui generis ed un’aria da tramonto visto dall’amaca sotto il portico, non un briciolo di aggressività, non uno screzio né un pensiero cattivo hanno osato insinuarsi tra le mie sinapsi.

E mi sono sentito anche io fluttuare in una bolla leggera fatta di tutto o di niente, pronta a dissolversi in un amen, fra trame esili e carezzevoli aggrappate a divagazioni sì essenziali, eppure così efficaci nel dipingere panorami inaspettati, sempre sul filo di un chitarrismo lontanissimo da virtuosismi o elucubrazioni cervellotiche, guidato da una mano a cui bastano poche pennellate a nobilitare la tela.

E’ calata la sera. Ho risolto il problema. Fuori continuava a diluviare, ma pazienza. (Manuel Maverna)