ALAN+  "Anamorfosi"
   (2021 )

A ben undici anni da “Il suono di Soho”, preceduto dalla recente pubblicazione in digitale di un ep con tre versioni riviste di “Delavega”, brano contenuto nel lavoro d’esordio, il bassista Tony Vivona ed il chitarrista Alessandro Casini – nel frattempo in luce in svariati act di notevole spessore, dai Deadburger Factory a Les Jardins Des Bruits - rispolverano la sigla Alan+ e pubblicano per Urtovox le dieci tracce di “Anamorfosi”, accentuando ulteriormente il ricorso allo stile peculiare che aveva segnato gli inizi del progetto.

Mentre le lievi divagazioni jazzy che caratterizzavano “Start” o “Tentazione” ed i testi minimali scompaiono inghiottiti da un rinnovato e ritrovato focus posto sia su composizioni compatte e mature sia su liriche più compiute e strutturate, le incursioni sperimentali vanno attenuandosi in favore di una maggiore e migliore definizione dell’obiettivo: le dinamiche sono più a fuoco, il disegno generale meno dispersivo, l’elettronica che dominava le tracce del primo album è sostituita da una decisa virata in direzione di derive post aggiornate ai tempi.

Alla base di “Anamorfosi” c’è un uso più convinto e massiccio dello spoken-word, asciutto ed insistito, una declamazione intensa e partecipata che riparte da “Ora”, episodio conclusivo del debutto, conservandone sì alcune peculiarità, ma spingendosi con decisione oltre una formula il cui rischio è sempre quello di apparire abusata. Per questo, più che la scelta del recitativo a destare sincero interesse devono necessariamente essere altri elementi e sfumature, da cogliere con attenzione indagandone le potenzialità e la spiccata personalità che li innerva.

Ammirevoli dunque sia la cura estrema per la costruzione dell’ossatura musicale dei brani, sia la ricerca di testi grondanti afflizione, sconforto, malessere, esistenzialismo malinconico; parole oscure e cariche che ricordano l’indole umbratile di Giovanni Succi affogano in trame vitali e pulsanti, impreziosite da contrappunti inattesi (il violoncello di “Collisione”) e da impennate cariche di una foga paradossalmente compassata e trattenuta (“Ancòra”).

Curati i suoni, rifiniti con classe gli arrangiamenti e nitida la produzione, a risultare intriganti sono anche e soprattutto la ricerca di strutture rock (“Effimero inganno”) e la scelta – già accennata, ma qui sublimata - di optare per intro e code strumentali atte ad alleviare la tensione recitativa, focalizzandosi invece sulla potenza dei brani stessi. Fulgidi esempi sono sia “Come non mai”, col breve testo iniziale inglobato in un magma sonoro vario e prezioso, sia la successiva “Tengo traccia”, con occasionale cantato sul ritornello che ricorda addirittura i Litfiba di “17 re”; ma non sono trascurabili neppure il battito à la RCCM di “Fino all’ultimo respiro”, il rallentamento esitante di “A wonderful side of you”, le movenze suadenti ed incupite della title-track, in debito sì con gli dèi (Mimì Clementi & soci, ça va sans dire), ma comunque statuaria nel suo incedere teso e fremente, che mai deflagra fino a scomparire nell’outro.

Un disco da sondare nei suoi più reconditi recessi, alla ricerca dell’anima tormentata dal cui soffio primigenio nasce: è molto più di un recitato-su-base, molto più di una raccolta di canzoni. (Manuel Maverna)