HOTEL KALI  "Hotel Kali"
   (2021 )

Meticcio e apolide in ogni sua imprevedibile svolta, il progetto Hotel Kali nasce quasi per caso sul finire del 2018 dalla collaborazione tra la compositrice e polistrumentista tedesca Theresa Stroetges e tre musicisti indiani, il tastierista Varun Desai, il contrabbassista Debjit Mahalanobis e la cantautrice Suyasha Sengupta.

Già nota sia per i trascorsi nel trio avant Soft Grid sia per l’attività solista sotto il moniker di Golden Diskó Ship, Theresa incontra quasi casualmente i suoi nuovi partner durante un soggiorno di due mesi a Calcutta patrocinato dal Goethe Institut nell’ambito del Border Movement, iniziativa a carattere transnazionale il cui scopo è la interconnessione e la proficua cooperazione tra esponenti di diversa estrazione culturale in ambito musicale, particolarmente orientata a fungere da ponte tra Europa ed Asia meridionale.

Dal rodaggio delle frenetiche jam iniziali alla stesura dei brani poi confluiti in “Hotel Kali”, debutto per la berlinese Antime, il passo è stato relativamente breve, il tempo necessario per non dispedere la ribollente creatività del quartetto: restano sette lunghe tracce per quarantasei minuti fluttuanti e visionari nei quali nessuno smarrisce la propria identità, mentre l’insieme ne esce arricchito e corroborato.

Tessiture ipnotiche e suadenti scosse da bassi profondi e ritmi pulsanti sorreggono brani che spaziano da atmosfere dub e suggestioni lounge/chill out a cavalcate motorik dal passo teutonico, ma screziate da arrangiamenti che flirtano con sonorità tipiche del subcontinente indiano; testi brevi cantati sia in inglese che in bengalese dalla voce flautata e conturbante di Suyasha conferiscono ai pezzi un effetto mantrico generato dalla ripetizione di singole parole e dall’impiego di figure armoniche altrettanto circolari e ossessive, seppure morbide e laid-back.

Dalla trama in lento sviluppo di “Intro” fino ai dieci minuti in crescendo stordente della conclusiva “Calm/storm”, passando per le movenze sensuali di “Disco shobar”, per la cover di “Fake horse” (già apparsa a nome Golden Diskó Ship su “Invisible bonfire” del 2014, qui riproposta in versione più mossa dell’originale), per gli archi che avvolgono in spire inebrianti i sette minuti di “Viola rave”, l’album oscilla tra fascinose arie à la Warpaint e l’algido intellettualismo dei 75 Dollar Bill periodo “I was real”.

Il quadro generale riflette non solo la naturale amalgama di diverse anime, ma anche e soprattutto l’incontro di istanze apparentemente inconciliabili, fuse mirabilmente in un melting-pot che sorprende per unità di intenti e per coesione. Elettronica, ascendenze kraut, contaminazioni neoclassiche, echi jazz e musica bengalese trovano collocazione in un delizioso pastiche di rara compiutezza, espressione vivida di una musica senza frontiere né limitazioni di alcun tipo, il cui unico motore è l’estro sconfinato da cui nasce. (Manuel Maverna)