ESTER POLY  "Wet"
   (2021 )

Stavo pensando a qualche duo basso/batteria di un certo rilievo, così tanto per accostare a nomi noti questo nuovo album – il secondo, a quattro anni di distanza dal debutto di “Pique dame” – delle Ester Poly, coppia svizzera formata da Martina Berther (voce e basso, originaria di Zurigo) e Béatrice Graf (batteria, da Ginevra). Mi sovvengono ovviamente i Royal Blood, i Lightning Bolt, i Whitey Houston e perfino i nostrani Wolfango, che poi erano un trio, ma poco importa: tutta gente che con una stumentazione così ridotta all’osso ha saputo inventarsi qualcosa per tenere desta l’attenzione.

Il bello di “Wet”, pubblicato per Hummus Records, è il suo modo ostinato e sbilenco di cercare nuove strade e sbocchi non lineari ad una formula altrimenti piuttosto arida, almeno sulla carta: ecco allora nove tracce e due remix per trentasei minuti disallineati che giocano con tentazioni avant, sperimentazione, suggestioni post-wave, accenni di immortale post-punk, cacofonie, dissonanze, echi dub, digressioni math, aperture improvvise e inserti strumentali taglienti e obliqui, trucchi e cotillon che rendono solo in parte l’idea di quanto accade in un album arduo da ascrivere ad un qualsiasi filone.

Introdotto dal tribalismo soffocante di “Respect my speck”, infilato a forza nell’ossessiva cadenza marziale di “Hier kommt die welt”, stravolto dai brevi sketch di “Commandments” e “Dadada”, reso contorto e visionario dai sette minuti e mezzo di una “Smell of female” che flirta di continuo con variazioni ipnotiche, quello allestito dal duo è un teatrino che rivolta come un calzino tutto l’immaginario – sonoro e non - del rock-che-fu, offrendone una rappresentazione decadente e bislacca.

Testi in inglese, tedesco e francese giocano con la vocalità in guisa di strumento aggiunto (“Presses”, devastante in centosette secondi), offrendo molteplici suggerimenti ad un rompicapo che soluzione non ha, neppure in “She’s somewhere” - passo baggy sì, ma infido – o nella title-track che si snoda nevrotica, metronomica, robotica nel suo insistito contrappunto controtempo, un ectoplasma che pare generato dall’estro più accessibile dei Black Midi, risolto in una specie di ritornello storto e slabbrato.

Futurista o passatista che sia, “Wet” è come un castello di carte di ammaliante bellezza, pronto a dissolversi in un istante, ma non prima di avere regalato tutta la sghemba magia delle Ester Poly: per essere un duo basso/batteria, è un prodigio. (Manuel Maverna)