NASTURTIUM  "Please us"
   (2021 )

Culla di un astrattismo sonoro impalpabile e sfuggente, “Please us” vede il debutto su etichetta Room 40 del duo losangelino Nasturtium, progetto nato all’inizio della pandemia dall’unione della chitarrista Erin Dawson e della compositrice Geneva Skeen.

Come si conviene al catalogo Room 40, cinque tracce eteree e diafane flirtano con ambient-noise e drone music, legate a filo doppio con le divagazioni esistenzialiste dei Flying Saucer Attack - sia gli ultimi, ossia quelli incorporei di “Instrumentals”, sia quelli evanescenti di “Chorus” -, ondeggiando ipnotiche tra lo-fi e derive di elettronica minimalista.

I trentasette inafferrabili minuti di “Please us” scivolano svagati e visionari sul filo di una elettricità sottilmente evocativa, mai invadente ma sempre fascinosa, incisa nel dna di queste lunghe dilatazioni interamente strumentali capaci di lambire musica modulare e improvvisazione psych lavorando sul paradossale sviluppo di strutture statiche. Votati ad una trance tanto magnetica quanto rilassante, suadente ed onirica, i brani creano un senso di straniante alienazione, disegnando paesaggi suggestivi per il tramite di tessiture stratificate, impenetrabile miscela di rumore bianco e rarefatta purezza.

Quasi fosse una caliginosa, incombente aria dei Sunn O))), “Across withered grass” apre su otto minuti squassati da bassi profondi e feedback lacerante, in qualche modo mitigati da un bucolico tema portante nascosto dalla fitta coltre di rumore che l’avvolge come nebbia spessa. Percussioni, archi e un pianoforte lontano si lasciano sommergere docilmente da un gentile susseguirsi di interferenze plasmate ad arte nella successiva “I remember everything, almost constantly”, condotta dal nulla al nulla lungo un sentiero disseminato di piccole asperità, riverberi, esplosioni, battiti.

La stessa appassionata incompiutezza scrive il copione della breve “The seat of compassion” - oscillante dall’intro gentile al minaccioso finale - come pure l’incedere fosco e monocorde di “Masseter”, costruita su un crescendo emozionale incerto e scomposto, quasi fosse una litania dei primi Red House Painters: è il preludio alle deflagrazioni della chitarra - disturbante e sottilmente inquieta - nei nove minuti della conclusiva “Earth priority”, epilogo che attraverso un dedalo di cunicoli ciechi conduce l’album al suo inevitabile dissolversi.

Musica circolare che riparte da dove sembrava essersi conclusa, in un incessante movimento tanto più ubriacante quanto più pare fermo al punto di partenza: si addensa, si polverizza, evapora in una scia che regala qualcosa di incantevole mentre svanisce in un istante. (Manuel Maverna)