STAIN  "Kindergarten"
   (2021 )

Ciò che rende mirabile “Kindergarten”, piccolo grande disco degli Stain – quartetto barese al secondo album dopo l’esordio di “Zeus”, datato 2018 – è la facilità apparentemente irrisoria con la quale vaga in mille direzioni senza lasciarsi del tutto afferrare, portando a spasso una musica cangiante e fluida tra vestigia sparse di ascendenze mai riferibili al medesimo milieu, da qualche parte tra Tame Impala, Dirty Projectors e These New Puritans, ma anche no.

Piccolo perchè si tratta di un ep di sei brani e ventuno minuti, grande per il resto, ivi compresa la scoperta volontà di concedere soltanto sporadici appigli, come una scogliera impervia a picco sul mare. Ventuno minuti che sanno essere colti ed elitari in una veste discreta, crogiuolo di creatività nel quale si fondono istanze disparate, ma sempre con grazia, garbo e misura, senza bruschi scossoni, robuste spallate nè particolari asperità.

Introdotta da una chitarra bislacca che sa di Pavement, scossa verso la metà da un controtempo nervoso che la spezza e la strapazza, cullata in un’oasi di languida beatitudine che la prende per mano e la conduce a quel finale inconcluso dal sapore di Slint, “Clay” apre offrendo in cinque minuti scarsi una panoramica completa di ciò che verrà: è il preludio ad un’avvolgente mistura di armonie diafane, ritmi che accennano, promettono, scompaiono e tornano a colpire, contrappunti che bucano la trama reclamando un’inattesa centralità (“Swinging ‘till boom”), voci filtrate, disturbi in sottofondo, movimenti sinuosi e costruzioni astratte.

Questo disco è un puzzle, ma per ogni pezzo aggiunto un altro viene sottratto: mentre conserva alcuni tratti distintivi, il disegno muta di continuo, allontanandosi impercettibilmente dal modello iniziale.

“Merry go round” ha inflessioni quasi canterburyane che delineano un pop gentile ed elaborato tra XTC e Steely Dan, morbidezza psych in salsa retrò mossa da un’improvvisa accelerazione e spenta in un nuovo cul-de-sac; “Thanks mama”, sospinta dal breve strumentale di “Nap”, deflagra in un sabba di accordature aperte che creano un ingorgo sonico di matrice emocore, da qualche parte tra Amusement Parks on Fire, DIIV e Swervedriver, un magma ribollente convogliato verso la chiusura intima e dimessa di “Erik Woodman”, impreziosita dalle note del vibrafono, incanalata lungo i binari di un canto docile e confessionale, stretta fra tenui tropicalismi e percussioni à la Vampire Weekend, dissolta nell’ultima nebulosa.

Questo è “Kindergarten”, prodigio di compostezza che veleggia sul filo di sensazioni e ricordi presenti e passati: delicato come un acquerello, fragile come cristallo, serafico nel suo primigenio candore. (Manuel Maverna)