OSTINATI  "Stone wall"
   (2021 )

Weather Report, che passione! Detto da un sessantaquattrenne “diversamente giovane” (politicamente corretto? No grazie! Preferisco chiamare le cose con il loro nome, seguendo il vocabolario della nobile lingua italiana rispetto alla celebrazione dell’ipocrisia sociale), ventenne al tramonto della travagliata decade settantiana, vale doppio. I “diversamente giovani” della mia generazione ricorderanno la faziosità degli schieramenti e delle appartenenze alle varie “tribù musicali” (fra le molte bizzarre realtà “tribali” postmoderne, spiccano quelle alimentari; si veda Niola M., Homo dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari, Il Mulino, Bologna, 2015) che portavano ad escludere e talvolta a denigrare tutto quello che non rientrava nell’in-group (“eco chamber” nell’attuale gergo anglofono tarato sui social media).

Nella mia “tribù” giovanile in jeans e pantaloni a zampa di elefante (in dismissione con i primi sentori del “riflusso” ottantiano) ci nutrivamo a suon di tramezzini e progressive rock, accapigliandosi fino a tarda notte sui gruppi preferiti e su quelli reietti, ma quando si pronunciava la parola magica “jazz-rock”, vaga ed inconsistente sul piano classificatorio (confluita nella altrettanto generica etichetta fusion) quanto efficace su quello comunicativo, la tensione si placava. Come non apprezzare quella musica ariosa, complessa ma fluida con i suoi momenti di “catartica follia” contenuta nelle incursioni free-jazz, richiedente notevoli abilità tecniche (come del resto il progressive), dove trovavano ampio spazio i fiati (minoritari nel rock, ad eccezione del flauto) e l’inconfondibile piano elettrico Fender Rodhes? E poi il genio di Jaco Pastorius, modello di riferimento per molti bassisti rock, così come il talento di Joe Zawinul ai tasti d’avorio… Anche in Italia eravamo decisamente ben messi: dal Perigeo (più spinto verso il versante jazzistico) agli Area (più spostati verso i canoni progressivi ed avant-garde), dagli Arti&Mestieri a Napoli Centrale passando per la eccellente parentesi della PFM con ''Jet lag'' (Zoo Records, 1977) - l’elenco potrebbe continuare.

A distanza di una quarantacinquina d’anni continuo ostinata-mente ad apprezzare questo tipo di musica, al netto delle sue numerose trasformazioni ed evoluzioni. Non ho quindi esitato ad inserire nel lettore il disco strumentale targato Lizard Records con cui ha esordito la nostra band siciliana (Sergio Battaglia, sassofono; Riccardo Drago, chitarre; Carmelo Rendo, tastiere; Adriano Denaro, basso; Giovanni Cataldi, batteria, percussioni) situabile nell’oceanico filone descritto finora. Composto da 10 brani della durata media di 5 minuti e mezzo, ''Stone Wall'' esprime un sound mediterraneo che attinge alla tradizione jazz riprendendone le principali architetture compositive ed esecutive, con quel tanto che basta di improvvisazione che avvicina la sala di registrazione al palco e viceversa.

Momenti di trascinante ritmica dispari uniti ad accattivanti linee melodiche (ottimo ''Syncro'', il brano di apertura che traccia le coordinate di quel che ci attende) guidate dal sassofono di Sergio Battaglia (compositore di tutti i brani eccetto la reinterpretazione di “Speak No Evil”, tributo a Wayne Shorter) si alternano ad episodi distensivi che emanano sensazioni di leggerezza, come il carta zucchero che colora l’immagine del muro della copertina con la foto della band. Stimoli ideali per riarmonizzare corde emozionali messe alla prova dall’“information overflow” di una società tanto più iperconnessa quanto più foriera di solitudine (del cittadino globale, aggiungerebbe Zygmunt Bauman). Ostinat(ev)i pure senza indugio ad ascoltare ''Stone Wall'', ne gusterete tutti i sapori godendone i benefici effetti. (MauroProg)