STEVEN BROWN  "El hombre invisible"
   (2022 )

In El Hombre Invisible Steven Brown, uno dei due leader dei Tuxedomoon, alla sua prima prova solista sin dagli Anni Novanta, dà sfoggio di tutto il talento che possiede nel costruire misteriosi quadretti intimi e incisivi, dalla carica musicale e lirica fortemente enigmatica e in qualche modo simbolica, piena di grandi momenti vocali e chitarristici e intrisa di splendidi passaggi tipicamente browniani di piano e di sassofono.

Negli undici rilassa(n)ti e avvolgenti pezzi che compongono El Hombre Invisible Steven Brown non solo è una presenza potente e centralizzante che esplora ogni brano insieme a noi ma sembra essere anche ascoltatore lui stesso di sé, a fianco a noi gentilmente, pronto a guidarci nelle profondità del suo animo e della sua idea di musica. I testi e le atmosfere dei brani sono figli sparsi ma fidati di ciò che è successo negli ultimi ventotto anni, crisi economiche, politiche e sociali, le lotte zapatiste nel Chiapas, l’attivismo ecologico, l’amore per la natura. Tutto questo emerge, squillante e infuocato, nei quasi quaranta minuti del disco.

Il viaggio inizia con “Warning”, che è avviso e minaccia dei tempi incerti in arrivo e, forse e più specificamente, dei tempi incerti che abbiamo accettato ormai da trent’anni e che viviamo senza neppure più ansia o energia, intrappolati dalle nostre routine e ormai disillusi. “Here we are”, canta Brown con un realismo che sembra non rassegnarsi a trasformarsi in cinismo. È questa rara e frammentaria incertezza che dà forza all’album, mentre una psiche in frantumi prova a ricostruirsi di fronte ai drammi del mondo e ai silenzi che portano. “The English killed the Spanish man, woman and child”, canta Brown in “The Book”, riferendosi al sangue sparso dai conquistadores, un tema da sempre a lui caro, lui che così tanto ama la natura e la gente di Oaxaca, la città messicana dove da tempo lui, che era nato in Illinois e che coi suoi Tuxedomoon aveva vissuto in California, a New York e in Europa, ha deciso di stabilirsi, per lui una sorta di patria putativa.

La bellezza che El Hombre Invisible ci presenta è una bellezza che deve ancora r(i-)esistere, una bellezza sfiorita e ferita dall’uomo e dalle sue manie di grandezza, dalla violenza a lui intrinseca, dalla sua volontà di imporsi su tutto e su tutti, una bellezza che nonostante i tagli prova a farsi valere e a mostrarsi. Gli eccidi dei nativi si rivedono, oggi, nelle guerre ai più deboli, nelle ingiustizie sociali perpetrate dai forti, negli ecosistemi sempre più massacrati dall’egoismo antropico, tutti temi che sono al centro del disco, opera necessaria per Brown, che torna a pubblicare qualcosa soltanto a suo nome dopo tantissimo tempo.

I suoi Tuxedomoon, coi quali ha inciso una quindicina di dischi tra gli Anni Ottanta e oggi, risuonano fortemente nei sentieri labirintici che questi brani costruiscono, nell’incedere solido e al tempo stesso delicato degli strumenti che Brown suona, vale a dire il suo levigato e onirico sassofono, il gran piano fragile ed elegante, il clarinetto caldissimo e quella voce baritona che ipnotizza e coinvolge. È una voce che ti prende per mano e ti porta con sé per terre e per mari lontani quella che finisce quasi per diventare un sussurro in “Faces” o quella che abbraccia sfumature blueseggianti e cavernose nella leggiadra “Resist”; è una voce che non può essere mai staccata dall’uomo e dalle sue idee di vita e di musica.

Come ritorno solista dopo moltissimo tempo, El Hombre Invisible dimostra che Brown non ha perso nulla di quella incisività e di quella grinta sincere e sanguigne che hanno caratterizzato, a oggi, tutta la sua produzione coi Tuxedomoon e gli altri suoi lavori. Accompagnato da un folto gruppo di musicisti – una decina in tutto – che lo segue con trasporto e con gioia, Brown in questo nuovo progetto riesce a veicolare tutto ciò che sentiva di dover trasmettere e lo fa con una puntualità e con una schiettezza magistrali, coerenti, come al solito, con i tracciati che fino a oggi ha percorso. (Samuele Conficoni)