STARAYA DEREVNYA  "Boulder blues"
   (2022 )

Più che un disco, ogni sortita del collettivo apolide Staraya Derevnya - longeva insana creatura del geniale Gosha Shtasel - è qualcosa di simile ad una cerimonia pagana consumata in un mondo a parte, una Ultima Thule ben lontana dalle coordinate che meglio (ri)conosciamo.

Rivestita di una valenza ritualistica mischiata ad un afflato elitario imbevuto di suggestioni artsy, impregnata di un immaginario che procede per emanazione diretta dalla cultura russa attraverso le epoche, la loro musica appare talora come la traduzione sonora della pittura simbolista di Marc Chagall: romantica ma inquieta, misterica, ossianica a tratti, sciamanica altrove, colta sì, ma curiosamente anche popolare.

Caotica, in perenne movimento, eppure mantrica nella ricerca ostinata della ripetizione, oscillante tra tentazioni di accessibilità e rinuncia repentina a quelle stesse aperture concesse all’uditorio; scossa da disturbi di ogni sorta, consacrata al fastidio, antitesi dell’intrattenimento tout court, prodromo di una cocciuta autocelebrazione, manifesto sì futurista nelle forme, ma paradossalmente passatista nella caparbia rielaborazione di canoni ancestrali.

Col suo bagaglio di suoni ostici imperniati su dinamiche emozionali, “Boulder blues” - testi ancora basati sull’opera di Arthur Molev - segue di due anni l’enorme “Inwards opened the floor” (osannato su queste pagine http://www.musicmap.it/recdischi/ordinaperr.asp?id=7897), all’insegna del consueto pastiche tra avanguardia e rilettura stravolta di elementi tradizionali: echi free-jazz, progressive strapazzato, percussionismo frenetico, urla sguaiate, borborigmi frammisti a stralci di poesia fusi in un sincretismo indecifrabile, un linguaggio che impasta - solo apparentemente a caso - elementi antitetici creando architetture indefinibili.

In quarantadue minuti che fluttuano in una bolla visionaria degna dei Flaming Lips o dei 75 Dollar Bill, vanno in scena cinque tracce martellanti, ubriacanti, stordenti, spesso sorrette da un’ossatura mutuata dalla neoclassica come dalla contemporanea: il teatrino espressionista dell’opener “Scythian nest” con l’abituale corollario di vocalizzi scomposti; gli otto minuti della title-track, interamente costruiti attorno alla reiterazione ossessiva delle due parole “kamen’ zvuka” in un parossistico crescendo di tensione; la bizzarra mascherata di “Tangled hands”, rigonfia di languido trasporto, quasi una canzone normale nonostante il diluvio di dissonanze stravinskiane a confonderne gli intenti; i ventuno minuti psych di “Bubbling pelt”, insistito sferragliare catacombale portato a zonzo da una linea di basso perennemente identica a sé stessa, esperimento ipnotico che deraglia nella convulsa follia barrettiana del finale; la breve “Gallant spider”, chiusura in precario equilibrio sul filo sottile di un improbabile folk balcanico, deformato dall’ennesimo gioco di specchi.

In fondo all’oscuro cul-de-sac così abilmente progettato, l’atmosfera rimane caliginosa, opprimente, sinistra, foriera di sentimenti contrastanti; sotto la superficie increspata da cotanto bailamme, altri indizi ed altri enigmi attendono di essere svelati, prima di spalancare nuovi abissi. (Manuel Maverna)