OSSI  "Ossi"
   (2022 )

Come direbbero i non più giovani facendo il verso ai giovani, questo disco è tanta roba.

Magari non ti arriva così di botto: richiede di insistere, con pazienza. O magari non ti arriva proprio, ma è innegabile che presenti la sintomatologia completa del piccolo colpo di genio.

Progetto di Simone Tilli e Vittorio Nistri, Ossi rappresenta un’innocente evasione dai Deadburger Factory: divi con umiltà, direbbe Roberta Giallo, o intellighenzia for the masses, se preferite. Non la boutade estemporanea di guitti di ventura o di imbonitori da quattro soldi, ça va sans dire. Tanto per gradire, l’organico di Ossi comprende Dome La Muerte, Andrea Appino e Bruno Dorella, che daremo per arcinoti e sui quali è superfluo aggiungere dettagli.

Pubblicato per la Snowdonia di Cinzia La Fauci, introdotto da un artwork che è già di per sé una delizia e che meriterebbe trattazione a parte, sontuoso biglietto da visita a spalancare le porte dello show, l’album non lesina ganci, disturbi, magheggi. Gioca con una falsa lievità, così estranea ai Deadburger da farlo sembrare una scampagnata, una gita, una vacanza rilassante: è invece un gigantesco trompe-l’-oeil, un superbo numero di illusionismo che maschera ad arte i suoi molti trucchi mentre finge anche di divertire.

Il risultato è un collage di voci, suoni, ritmi, idee, citazioni, un hellzapoppin ubriacante e stordente che gigioneggia caparbio, quasi tronfio, rimbalzando tra registri vari senza che ciò rappresenti un problema (sicuramente non per chi suona). E’ un disco ondivago, in cui l’intento supera per intensità l’appeal, nel senso che la vera opera d’arte è in fieri: il capolavoro è la costruzione dell’edificio, non l’edificio eretto.

E’ opulento, strabordante, traboccante di creatività; non è bello, ma nemmeno i dischi di Merzbow – per azzardare un esempio - sono belli. La differenza è che Merzbow – per proseguire nell’esempio - ha un taglio smaccatamente avant, gli Ossi no. Osano, e parecchio, ma per inseguire l’estasi del momento ribaltano l’inflazionato dualismo forma-sostanza, rinunciando alla forma e ingozzandosi di sostanza. Di solito è il contrario, e già questo la dice lunghissima su un lavoro che potrebbe segnare chez nous un punto zero.

Tra vestigia sparse di Edda, Porno Teo Kolossal e Bachi da Pietra, va in scena una pièce indefinibile in cui nessun brano è forse davvero memorabile, ma l’insieme - paradossalmente – lo è; suona geniale in tutto e per tutto, sebbene non miri a piacere ad ogni costo, quasi non lo volesse o – semplicemente – se ne disinteressasse, perso talora nel suo autocompiaciuto baloccarsi.

Intanto, si pasce di detriti e (dis)umana bestialità, plasmando ogni atout disponibile in fogge imprevedibili, spiazzando come in preda ad una ispirata esaltazione, figlio di un estro inesauribile e di una velenosa predisposizione a fustigare il malcostume.

Il limite? E’ un disco innamorato di se stesso, deliziosamente presuntuoso, eccessivo come la cartella stampa di cinque pagine che lo accompagna. Poco male.

Il meglio? Ogni brano racconta una storia vera, remiscelando il grottesco, il paradossale, il ridicolo, il risibile, l’assurdo; ma anche il poetico, il drammatico, l’iperbolico, il macchiettistico. Piccole storie ignobili di una povera patria, folklore sovraesposto buttato in pasto agli astanti, commedia umana, (neo)realismo (tra)sfigurato edificato su stralci di interviste, brandelli di conversazioni, tv spazzatura, pensiero limitato e scialbo parlare, dalla delirante opener “Ventriloquist rock” al parossismo schizoide di “Monk time”, passando per i nove minuti tragicomici di “Out demons out” col loro campionario di crassa ignoranza consegnata al pubblico ludibrio.

Il meglio ancora? La capacità di imbastire un suono che non è rock, non è psych, non è cantautorato né canzone d’autore, non alt-folk né sperimentazione. E’ zappianamente off, ma – azzardo - vorrebbe non esserlo, o non così tanto, o non sempre; spingendosi sul limitar di godimento, gravita sull’orlo del precipizio, ma non abbastanza per cadere nel baratro dell’incomunicabilità o nella trappola del rock colto.

Sfilano in ordine sparso i bozzetti pecorecci di “Ricariche” e “Toy boy”, che farebbero sorridere, se non celassero una profonda amarezza sotto le mentite spoglie di un vivido divertissement; il waitsiano blues slabbrato di “Hasta la sconfitta siempre”; l’aspro sfogo di una “Naturalmente non possiamo pagarti” che in tre minuti frulla innumerevoli generi musicali, mentre intona il suo sardonico inno alla sconfitta; l‘ndrangheta-country di “O’ pisciaturu”; la toccante chiusura di “Navarre”, che riporta tutto a casa sulle ali del solo racconto che sappia di redenzione, di purezza in tanto marciume, di vittoria.

Alla fine, qualcosa di pulito resta.

Concettualmente, un disco enorme. (Manuel Maverna)