JOHNNY DALBASSO  "Lo stato canaglia"
   (2022 )

Alla faccia delle elucubrazioni cervellotiche e delle elaborate architetture sonore e bla bla bla: ci si sente meglio dopo una bella schitarrata, ça va sans dire.

Incurante di dove si possa celare il Sacro Graal della musica, mr. Johnny DalBasso, schietto e diretto come sempre, ci spara dritto in faccia - con sommo gaudio reciproco – le tredici tracce de “Lo stato canaglia”, trentatré minuti alla sua maniera, scanzonati eppure tosti e tenaci nel menare botte da orbi in nome del rock, oh yeah.

Disponibile in digitale e solo in limitatissima tiratura in cd, l’album è il quarto in carriera dal 2014; fedelissimo alla linea, ripropone a tre anni e mezzo dal poderoso “Cannonball” un autore impetuoso col suo stile frontale e ruvido.

Il disco è una sberla di rock viscerale senza fronzoli, che bastona il malcostume imperante con penetrante sagacia ed uno humour tra il sardonico ed il surreale; neanche a farlo apposta, esce due giorni dopo il voto che non segnerà – si spera – un nuovo ’22, ma al cui esito alcuni dei pezzi sembrano calzare a pennello (“Colpo di Stato”, “Tutto in forse”, “Grandi passi avanti”).

Brani brevi e concisi, squadrati come lastre di marmo, concedono poco o nulla a chissà quali divagazioni cerebrali (intanto il Nostro scomoda Bukowski, Waititi e Luigi Galvani, così per gradire), prediligendo il consueto linguaggio aspro e diretto ed una musica aggressiva, frenetica, bruciante. Cita, gioca, sgrida e ironizza nei suoi quattro quarti pompati a mille all’ora, martellate da 2-3 minuti condite da chitarroni, ritornelloni e da un qualche anthem da mandare a memoria per ricantarlo al volante o sotto la doccia.

Pungente nella sua scarnificata satira sociale, che elegge a metodo il particolare per l’universale (la tragicomica storia vera narrata nella title-track, la love-song sballata di “Canzone pirata”), infila una serie impressionante di cornate a testa bassa, dalla veemente accoppiata iniziale di “Senza nome” e “Odia e desidera” al nonsense ameno di “Vampiro”, dalle contorsioni ubriacanti di “Andalusia” ai centoundici secondi di “Berlin burning”, che mi ricordano i Ramones e che ho mandato in repeat per una ventina di volte a fila, come “San Francesca” qualche anno fa.

Disco godibile e perfettamente a fuoco, foto di un artista ruspante che sa benissimo da dove viene e dove vuole andare: conosce il mestiere, è arguto, gagliardo, tagliente, centrato nel suo ruolo di disturbatore mordace. Simpatico quanto basta, serio quando occorre. Spesso amaro, sotto le mentite spoglie dell’amico che deve far sorridere per non piangere. (Manuel Maverna)