WHITE LIES  "To lose my life"
   (2009 )

È difficile inventare qualcosa di originale nell’attuale panorama musicale. Ci capita spesso di ascoltare band che si rifanno a colleghi musicisti o predefiniti generi musicali, con il risultato (il più delle volte) di apparire come una minestra riscaldata o, ancora peggio, come un prodotto assolutamente inutile. Bene, in questa premessa disfattistica mi sento di non includere i giovani londinesi White Lies che con “To lose my life” hanno pubblicato il primo album in studio. Non è assolutamente difficile capire come la principale fonte ispiratrice del gruppo sia stata la musica di Joy Division e figli. Una via, peraltro, già intrapresa senza infamia da altre band (su tutte Interpol ed Editors). Per i White Lies, trio composto da Harry McVeigh (voce solista, chitarra ritmica, tastiere), Charles Cave (basso, cori), e Jack Lawrence-Brown (batteria), diventa ancor più difficile l’impresa: risultare credibili dopo gli originali e, soprattutto, dopo i primi validi imitatori. Subito un tuffo al cuore quando leggiamo l’etichetta per la quale pubblicano i giovani inglesi. È la Fiction che si è assunta l’onere (vedremo nel tempo se sarà anche un onore) di essere la casa madre dei White Lies; un’etichetta che, ovviamente, non ha bisogno di parole di presentazione (leggi The Cure). Che Londra e l’Inghilterra tutta siano assolutamente “avanti” rispetto al resto del mondo è un dato di fatto; che in merito all’arte dei suoni siano precursori è un’altra certezza che ogni fruitore di musica conosce benissimo. E, se il sopraccitato assunto è ancora valido, non dobbiamo trascurare il fatto che “To lose my life” a poche settimane dalla pubblicazione sia, in tutto il Regno Unito, scattato in testa nelle classifiche di vendita. La copertina riproduce l’immagine di alte strutture cilindriche che, in un paesaggio notturno, ci comunicano un senso di freddo e desolazione. Sono i tre singoli che identificano benissimo il suono dei White Lies. Così, “Death” ci porta direttamente e senza passare dal via all’interno della dark/wave. Un suono crepuscolare, ed una batteria capace di tenere il tempo in attesa del ritornello, accumunano anche “To lose my life” e “Unfinished business” (secondo e terzo singolo). Quest’ultimo è quello che parte più ripiegato su sè stesso ma, al tempo stesso, è quello che lascia più spazio alla melodia. Una voce sufficientemente profonda, un basso che onorevolmente compie il suo dovere, ed una chitarra tagliente, quanto basta nel classico copione dark, sono gli elementi comuni dei tre singoli e dell’intero lavoro (come la stessa “Price of love” che chiude l’album secondo il medesimo schema sonoro tracciato in apertura da “Death”). Più oltre, ci piace ricordare “A place to hide”, la cui batteria suona molto simile a quella incantevole e minimale dei Joy Division; il cantato, invece, ci appare un po’ troppo urlato, mentre emerge da un apprezzato muro di tastiere. Con “Farewell to the fairground” (quante tastiere in evidenza!) i White Lies dichiarano di voler già provare ad uscire dal suono oscuro che hanno abbracciato con questo esordio, partorendo una canzone più solare (leggi Franz Ferdinand), ma ottenendo risultati meno esaltanti (meno dark, insomma, ma ancora tanta wave). “E.S.T.” inizia con una tastiera che deve molto ai primi Dead Can Dance o a certi Death In June, mentre “From the stars” è una delle migliori canzoni di “To lose my life” (segnaliamo qui il primo assolo di chitarra elettrica), e “Fifty on our foreheads” è alquanto epica nell’incedere. Prima della già richiamata “The price of love”, che chiude l’album senza flessioni di sorta, i tre giovani musicisti, con la nona traccia, scrivono (già) il loro epitaffio, cantando “Nothing to give”. Il brano nasce e termina come una lenta e struggente ballata sepolcrale (“…I almost die”), annunciando probabilmente un avvenire di felice oscurità. Proprio trenta anni fa tre ragazzi immaginari pubblicarono per la Fiction Records l’album d’esordio, avviando una carriera capace di calamitare milioni di fan, spalmati in tanti album in studio ed in altrettanti anni di spettacoli dal vivo; oggi (e per la medesima etichetta) altri tre ragazzi londinesi sembra che vogliano ripercorrere quel sentiero magico e non più tanto immaginario. In bocca al lupo. (Gianmario Mattacheo)