MIKE OLDFIELD  "Voyager"
   (1996 )

Era qualcosa che si prestava alle critiche fin dalla copertina. Dove lui, solitamente abbastanza restio a mettersi in prima linea, appariva a petto nudo, pensoso, quasi fosse un Beppe Maniglia qualsiasi. E, in seconda battuta, la scelta musicale. Che mandava Oldfield nel mondo del celtico, dell’irlandese e del medioevale: praticamente, nel mainstream di quel genere blandamente new age che andava all’epoca. Ce ne era di che contestare, magari prendendo una di quelle sue amiche campane a tubo e sbatteglierle in testa: così fecero i critici, un po’ meno il pubblico, dato che il disco qualche copia la riuscì anche a vendere. Ma Michelino, cosa poteva fare? Aveva ormai abbandonato le velleità da classifica, e si trovava con da un lato una platea che non capiva come mai non ci fossero altre “Foreign affair”, dall’altro un mondo, quello della musica strumentale, che diffidava delle sue scelte, apparentemente figlie dell’opportunismo e poco di più. “Voyager”, al netto di tutto, è un disco che si ascolta con serenità, a partire dall’iniziale “Song of the sun” e passando sia dai pezzi originali (la title track, in primis) ai rifacimenti di motivi tradizionali irlandesi, tra cui la usatissima “She moves through the fair”, brano che ha almeno un centinaio di rivisitazioni. Il problema, per Oldfield, era che il disco sembrava un rigore a porta vuota per chi voleva sbatterlo in quel mondo pressochè anonimo della musica strumentale, fatta per la meditazione e simile: nulla di male, sia chiaro, ma duecento anni di carriera non meritavano di terminare in una qualche compilation che poi qualche Into Illimano avrebbe suonicchiato sotto un portico. Se non altro, cercò di emanciparsi dalle campane: sarebbe durata poco. (Enrico Faggiano)