MIKE OLDFIELD  "The songs of distant earth"
   (1994 )

Di colpo, era tornato di moda. Un po’ il ritorno alla tubularità che lo aveva rimandato in classifica, un po’ la Virgin – antica casa discografica – che riempiva il mercato con sue raccolte, tanto per punirlo del divorzio. Ma di cercar classifiche si era stancato, anche se il talento che aveva bastava per appoggiar le dita su qualsiasi cosa e renderlo appetibile. Qui Oldfield gioca d’anticipo, e in queste canzoni da una Terra lontana (ispirate al romanzo omonimo di Arthur C. Clarke, tradotto in italiano come “Voci di Terra lontana”) si entra nel mondo della fantascienza applicata alla musica, ma anche nel mondo dell’interattività tra musica e computer, dato che il cd fu uno dei primi ad avere tracce cd-rom, con video e altre cose. Nel 1994, quando era troppo tardi per il Commodore e troppo presto per il boom di Bill Gates, sembrava roba da mangiare. Il disco, però, è tra le cose migliori fatte da Oldfield una volta lasciata la misura-canzonetta classica: si mischiano tanti generi, e pur rischiando di far dire alla gente “scopiazza” (ok, c’erano un po’ di sonorità etniche, ma a lui piacevano anche vent’anni prima, magare si poteva disquisire su “Hibernaculum”, dove i canti gregoriani sembravano davvero campionati da quelli del suo amico-vicino di casa Michael Cretu, che li aveva mandati a vender milionate con “Sadeness” ed Enigma), ma quel che conta è che non ci si annoia. Cosa tutt’altro che scontata, quando si parla di musica prettamente strumentale. Si comincia con le voci dall’Apollo 8 citare la Genesi, e si vola per l’ora di musica offerta. Sia chiaro: non è roba da mettere in macchina di notte, dato che il rischio di mischiarsi con il cielo stellato è sì romantico ma anche a rischio-pennichella, ma si fa ascoltare eccome. (Enrico Faggiano)