JON BON JOVI  "Destination anywhere"
   (1997 )

Jon Bon Jovi non mi è mai dispiaciuto. Non mi è mai nemmeno piaciuto sul serio, ma questo è un altro discorso. Jon Bon Jovi è una certezza, una garanzia, uno che sa il fatto suo ed ha sapientemente messo in piedi (e mantenuto ad alti livelli: questo è il difficile) un gran bel business in quasi trent’anni di onorata carriera. Presto persi per strada gli orpelli glam-rock-metal degli esordi (ma chi si scorda “You give love a bad name”, “Livin’ on a prayer” e “Wanted dead or alive”?), il sound dell’italo-americano è andato lentamente trasformandosi, passando da un hard-rock di maniera, più arduo da tenere in vita al trascorrere impietoso del tempo, al più classico fm-rock tanto amato oltreoceano. E’ una musica semplice e diretta, fatta di ballate mid-tempo alternate a qualche schitarrata da monello (qui lo fa soltanto in “Naked”), e ad un pugno di lentacci di quelli che si cantano col piglio sofferente di chi ha il cuore spezzato o dichiara il proprio amore eterno all’anima gemella di turno. A lungo andare il gioco diventa stucchevole, ed ogni traccia cade essa stessa vittima della sua prevedibilità: le canzoni non sono nè belle nè brutte, le storie raccontate non sono nè entusiasmanti nè disprezzabili, l’insieme non è trascinante ma neppure sgradevole, elementi che emergono con evidenza – anch’essa per nulla sorprendente - in “Destination anywhere”, primo ed unico album di Jon come solista, co-prodotto da Dave Stewart e composto da ben tredici tracce per oltre un’ora di musica. Il disco parte benissimo con la ballata perfetta di “Queen of New Orleans”: ritmo pieno, bella strofa contrappuntata da una frase di chitarra azzeccata, chorus vincente, crooning intenso e low-profile a suggerire una dimensione intima che giova all’insieme; prosegue bene con la ballata campagnola di “Janie, don’t take your love to town”, quasi un folkettone rimaneggiato ad arte forte di un chorus furbetto, ed inizia a mostrare i primi segni di cedimento con la melodia scialba del debole singolo “Midnight in Chelsea”. Da lì in avanti il trucco è scoperto, con una nutrita sequenza di brani scipiti privi di nerbo ed incapaci di suscitare interesse, come se a Jon mancasse talvolta il coraggio per proporre qualcosa di diverso: ne è dimostrazione l’interminabile nenia zuccherosa di “It’s just me”, che inizia promettente con un bel beat cadenzato di sapore vagamente lounge prima di naufragare scontata in un ritornello insopportabilmente mieloso e di risollevarsi in un bel finale chitarristico che la salva in extremis. A volte, come nella discreta title-track, prova ad imbastire un folk-rock sostenuto che fa molto Americana, ma pasticcia giocando al rockettaro dove non serve, calcando l’interpretazione con rabbia artefatta anzichè smorzandone i toni. L’armonica di “Learning how to fall” sarebbe una buona idea, ma stride nel contrasto col ritmo sintetico da beat-box (non è folk, non è rock, non è dance); non è male la ballata raccolta di “Little city”, che ondeggia notturna e confidenziale su un’atmosfera incupita, e neppure disprezzabile - sebbene il brano sia identico ad altri millanta nel repertorio di Jon - è il classico mid-tempo di “August, 7”, più Mellencamp che Springsteen, più maniera che vera ispirazione. Poca roba, ma non importa, perchè oramai va benissimo così. Jon Bon Jovi sa scrivere: il suo problema (ma è ricchissimo e famosissimo: quindi non è un problema) è che non ha assolutamente nulla da dire. (Manuel Maverna)