JOSH RITTER  "The animal years"
   (2006 )

Josh Ritter, talentuoso cantautore trentasettenne originario dell’Idaho, è in attività da oltre un decennio, nel corso del quale ha rilasciato numerosi album sempre caratterizzati da una notevole caratura, sia da un punto di vista letterario sia sotto l’aspetto meramente musicale. Autore intelligente, dalla scrittura accattivante e dalla penna mordace, Josh impasta con sapienza – e con molto mestiere – tutti i crismi di una certa tradizione folk/rurale tanto cara oltreoceano, pennellando brani essenziali, avvolgenti e coinvolgenti come solo le buone canzoni sanno essere. In punta di voce e di chitarra, spalleggiato da una band tanto asciutta quanto rodata, in “The animal years”, quarto capitolo della sua nutrita discografia, Ritter ammanta undici brani di una patina vieux-temps creata ad arte per riportare ad un’altra epoca, forse quella dei pionieri, dei cercatori d’oro e delle loro piste di sabbia da seguire in un west remoto ed ora ricreato ai giorni nostri, una sorta di ricostruzione a tavolino che profuma di cactus, vento caldo e fiori secchi. Il suono è cesellato ad arte, quasi provenisse da un live in studio in presa diretta, ed è perfetto per veicolare i racconti di varia umanità che Josh dipana con garbo allettante; con stile aggraziato intona ballate variegate e suadenti che riecheggiano sovente Bob Dylan, influenza tanto evidente quanto rispettosamente omaggiata in alcune tracce in modo particolare e distintivo (l’up-tempo campagnolo di “Lillian, Egypt”, il country in minore di “Good man”, perfetto anche per un Mark Knopfler, o lo slow fumoso di “One more mouth”, ad un passo da “Covenant woman”). Ma l’album annovera con fierezza anche eleganti tocchi personali che flirtano con la tradizione rileggendola con classe, in primis nell’epopea misticheggiante dei nove minuti di “Thin blue flame”, onirica invettiva pacifista ed antimilitarista condotta lungo un crescendo magistrale che valorizza uno splendido testo e ne accresce la visionaria poeticità; dallo strimpellio cadenzato della toccante “Girl in the war” al chorus che esalta la rilassata melanconia di “Wolves”, dal morbido fluire di “Monster ballads” (il cui incedere ricorda la “Last train home” di Pat Metheny) allo spiritual raccolto di “Idaho”, non lontano dallo Springsteen intimista di “Nebraska”, è tutto un susseguirsi di pregevoli intuizioni sviluppate talora sulla falsariga di modelli riconoscibili (il passo à la Neil Young di “In the dark”, con un tempo che ricorda quello di “Out on the weekend”, o la mesta ballata pianistica di “Here at the right time”, tra i National e Elton John) ai quali Ritter paga sì dazio, ma senza perdere un’oncia della propria personalità nè sprecare l’enorme talento di cui dispone. Disco semplice, intenso ed ispirato che riluce di uno splendore soffuso, scintillante nella sua tenue, delicata bellezza, una piccola gemma preziosa da scoprire ed apprezzare ad ogni ascolto di più. (Manuel Maverna)