MARILYN MANSON  "Eat me, drink me"
   (2007 )

Sarà pure l’Anticristo, ma anche Marilyn Manson - incredibile a dirsi – invecchia. Sebbene perseveri nella sua insistita mascherata glam, e nell’ostinata ricerca dello shock ad ogni costo, il tempo del grand-guignol e del suo carrozzone a rimorchio sembra essersi esaurito. Lasciate da parte le urla belluine, e la ferocia che fungeva da grimaldello per scardinare le porte dell’uditorio giovanile più problematico e tendenzialmente violentuccio dei mid-90’s, il signor Warner ha compreso appieno – ma lo ha sempre saputo, anche quando girava in mutande e si dissanguava coi cocci di bottiglia – di saper scrivere canzoni. E soprattutto, si è reso conto di saper scrivere delle buone canzoni rock. Deposte in parte le armi di quell’hard-rock di maniera mai del tutto rinnegato fin dal debutto del 1992, il buon Brian imbastisce con la sola collaborazione del chitarrista Tim Skold – qui anche fondamentale nel doppio ruolo di co-autore dei brani e di ingegnere del suono – un album di poche pretese, un disco diretto, frontale, piuttosto immediato, addirittura sincero nella sua prevedibile alternanza di chiari e scuri. Quello dipinto dai brani di Skold (Manson interviene solo con operazioni di cut-up e poco altro) è un mondo oscuro e malato, popolato di assassini, vampiri, morte e distruzione, ma non così terrificante come i molti inferni del passato riuscivano ad essere. “Eat me, drink me” riesce ad essere ascoltabile senza esagerare in alcun modo con i pasticci da sideshow, iniettando linfa puramente rock in undici tracce energiche quanto basta per tenere vivo l’interesse: è rock di stampo canonico quello di “Putting holes in happiness” (strofa, ritornello, assolo metal) e di “They said that hell’s not hot” (con un riff da hard-rock), ed è addirittura un bel blues – stuprato finchè si vuole - il crescendo palpitante di “Just a car crash away”, col Reverendo che modula la voce per l’unica volta in tutto l’album. E’ piacevole lo swing drogato di “The red carpet grave” come l’inquietante cadenza dell’iniziale “If I was your vampire” (che riecheggia per sonorità ed atmosfere la celebre cover di “Sweet dreams”), ed è indubbiamente il trionfo dell’orecchiabilità il singolo “Heart-shaped glasses”, reso appena meno fruibile dal ritmo incespicante. La seconda metà dell’album è purtroppo infarcita di ingenue cadute di tono; la verve tende a spegnersi in un trittico di infelici brani votati al metal più trito e grossolano, salvo risollevarsi nei due pezzi conclusivi: “You and me and the devil makes 3” galoppa quasi danzereccia tra sussulti gutturali e scordature metalliche, su una cadenza che ricorda curiosamente la “Material girl” di Madonna (provare per credere) suonata ad una sfilata di drag-queen, mentre la title-track cala il sipario su un sommesso martellamento in minore, perfino toccante nel suo cupo, spettrale incedere. Il Reverendo oramai ha cessato di sbraitare. Ha smesso di urlare e nemmeno predica più: ogni tanto canta, e neanche male. (Manuel Maverna)