GIRLS IN HAWAII  "Everest"
   (2013 )

Poco prolifici nei dieci anni di carriera di recente festeggiati, i Girls in Hawaii sono un sestetto belga che nello spazio di tre soli album, pur rimanendo profondamente ancorati alla propria roccaforte territoriale di origine, ha saputo costruirsi una discreta notorietà nel circuito indie internazionale. Pubblicato nel settembre del 2013 a ben cinque anni dal precedente “Plan your escape”, e pressochè interamente incentrato sul tema della morte suggerito dalla dolorosa scomparsa – era il 2010 - del batterista Denis Wielemans, vittima di un incidente stradale, “Everest” dispensa undici tracce oscure venate di una profonda, ammaliante tristezza. Il sottile, elegante velo di melanconia che ammanta queste toccanti composizioni trova sublimazione nell’agonizzante dilatazione dell’opener “The spring”, aria campestre in veste funerea che arranca su un esile tappeto di distorsioni e rumori ambientali, prima di cedere il passo al pregevole epitaffio in minore di “Misses”, melodia tanto intensa quanto strutturalmente perfetta nell’accostare uno sfuggente arpeggio à la Travis ad un chorus orchestrale di mistica bellezza. Tra aperture in stile tardi Ultravox (“We are the living” dipana una ariosa melodia su un inatteso controtempo), e concessioni ai Radiohead più accessibili (“Mallory’s heights”), “Everest” cesella un indie-pop solo in apparenza innocuo, trafitto da tenui derive psichedeliche affidate sia a solenni aperture tastieristiche sia all’uso reiterato di sonorità disturbanti di matrice blandamente industrial. Influenze pinkfloydiane sono chiaramente percepibili sia nel crescendo di “Switzerland” (partenza sorniona tra le immancabili interferenze, basso anni ’80, finale saturo e sospeso) sia nella ballata lisergica di “Head on”, che curiosamente riecheggia anche Al Stewart e Paul Simon, mentre l’obbligato riferimento ai connazionali dEUS si rivela calzante nell’opprimente aria retrò di “Here I belong” e nella coda noisy di “Not dead”, elegia funebre a passo di danza. Disco affascinante che merita reiterati ascolti per insinuarsi sottopelle, lavoro sornione che svela languida magia ed elevato estro creativo, celando entrambi dietro una ingannevole cortina di synth-pop; quando cala il sipario sulla contorta armonia spezzata di “Wars”, una sensazione di perdita rimane aleggiante a mezz'aria come un sibilo lontano, un ultimo respiro, una presenza invisibile pacificatasi dopo lungo peregrinare. (Manuel Maverna)