MIKE OLDFIELD  "Man on the rocks"
   (2014 )

Ci sono segnali che dovrebbero far capire quando le cose non vanno bene. Specie se sono i tuoi stessi fans che ti consigliano di lasciar stare, così come era successo un anno fa in occasione dell’uscita di “Tubular beats”, semiapocrifa pubblicazione di remix dance che avevano quasi fatto pensare alla circonvenzione. Ecco quindi che “Man on the rocks” veniva atteso più con timore che non con gioia, perché dal Nostro ormai non si sa più cosa aspettarci. Di fatto, non parliamo di un brutto disco, perché sicuramente è roba genuina e non tarata per qualche mercato, però non è quello che ci si può aspettare da Mike Oldfield: un disco quasi di adult oriented rock, con chitarre e la voce di Luke Spiller a far da protagonista. E che, quindi, sembra diretto discendente di quel “Earth moving”, altro album di soli pezzi cantati, che nel 1989 fece inorridire i fans e divenne pietra dello scandalo che avrebbe poi portato a rotture discografiche eccetera. Il problema, oggi, è cosa aspettarsi, dal signor Campane Tubulari: ripetizioni dei vecchi clichè progressive negli strumentali degli anni ’70? Quegli ibridi di grande successo commerciale negli ‘80s? I quasi concept album dei ‘90s? L’ennesima riproposta di quel grande successo del 1973? Forse, non lo sa nemmeno lui, ma se questo disco è stato accolto meglio dalla critica neutra che dal suo zoccolo duro di fans, qualcosa lo vorrà dire. Ripetiamo: niente di male, ma questo disco non fa volare come capitava ai tempi di “Crises”, e benchè più fruibile di alcuni recenti polpettoni si ascolta traccia per traccia cercando magari non una nuova “Moonlight shadow”, ma almeno una “Shadow on the wall”, una “Shine”, un qualcosa dei bei tempi andati, quando Oldfield era definito “il mago dei suoni” e sapeva mettere in musica sperimentazioni che facevano volare in cielo. Qui sembra che ci si limiti al proprio compitino, traccheggiando, come se Baggio di punto in bianco avesse deciso di diventare un terzinaccio qualsiasi, magari bravo a non farsi portar via la palla ma, santo cielo, privo di fantasia. Paradossalmente, potrebbe risultare più adatta ai fans la versione strumentale dell’album, che fa risaltare quello che Mike ancora sa far bene: suonare, suonare, suonare. Poi, Spiller ci perdonerà, ma tra lui e Maggie Reilly c’è la stessa differenza che ci può essere, anche qui, tra un fantasista e un difensore. In soldoni: disco piacevole, forse anche meglio di quanto non esca da questa recensione, ma se siete amanti delle precedenti epoche del Nostro, molto meglio cercare le ristampe deluxe dei vari “Platinum”, “QE2”, “Five miles out” e “Crises”: ci sguazzerete senza problemi. (Enrico Faggiano)