LILITH AND THE SINNERSAINTS  "Revoluce"
   (2015 )

Originaria della Valnure, affascinante e ben protetta nicchia d’Appennino fra Emilia e Liguria, l’incrollabile Rita “Lilith” Oberti, iconica musa rovesciata celata tra le pieghe di percorsi musicali non sempre aperti al nostro peculiare sentimentalismo patrio, realizza con i Sinnersaints (dietro le cui pelli siede Antonio “Tony Face” Bacciocchi, sodale di una vita e storico membro fondatore dei Not Moving, prima band di Lilith) un nuovo lavoro che raccoglie dodici brani originali, dieci in Italiano e due nel dialetto natìo. Disco essenziale, asciutto nella sua dosata eleganza rivestita di una impalpabile patina sciamanica, “Revoluce” si muove in una terra di confine materializzando un’aura sacrale in (in)dolenti ballate in minore, ricorrendo ad un linguaggio sì viscerale, ma temperato da un’innata grazia; disco che lievita sornione con moto impercettibile come lenta onda di marea, “Revoluce” consegna il ritratto vissuto e fremente di un’artista il cui spessore travalica la notorietà – invero ristretta, benché solida - raggiunta nei lunghi anni di una carriera ultratrentennale, ma ancora fulgida e ricca di promesse. Dopo un inizio che depista aprendo su una ingannevole leggerezza (il dialettale blues vandesfroosiano di “Sa furca” e l’aria svagata di “Canto”, impreziosita da una sfavillante parte di basso), l’album alimenta imperioso la propria intensità in un crescendo tanto graduale quanto inesorabile; in un levigato crooning adulto, mai edulcorato e per nulla addomesticato, forse soltanto pacificato o smussato dal tempo, Lilith vaga ammaliante ricordando il folk oscuro e tenebroso di David Eugene Edwards (“Se il nove fosse sei”) o certo blues ancestrale à la John Lee Hooker (“Lo faccio per me”, con bella slide), regalando sporadiche impennate (la torrida bordata elettrica di “(Vorrei parlarti di) Rivoluzione”, che argomenta con garbo evitando ovvietà di maniera) alternate ad episodi il cui vibrante intimismo diviene cifra stilistica d’elezione. Opera densa, vissuta e palpitante, triste come una lettera da lontano, “Revoluce” sa offrire sia la scarna immediatezza della waitsiana “Lona neigra” (canto sinistro e stralunata cadenza ossessiva) sia la variegata ballad à la Calexico di “Vivimi”, avviluppata con impeto bandistico attorno ad inattesi accenni di tango, passando per l'afflato coheniano della meravigliosa “Nero”, imbrigliata in uno svenevole sussurro baritonale preludio ad un chorus toccante nella sua armoniosa desolazione. Sono variazioni infinitesimali di un noir che induce alla melanconia senza opprimere né intimorire, uno spleen docile che conduce verso il sublime epilogo trasognato – un flauto ed una voce, nulla più - di “Le voci di sud est”, evocazione di ombre e paesaggi, fiaba o incantesimo, ricordo o profferta, un soffio, una magia, alito di vento che passa sulle cose lasciando dietro di sé soltanto un silenzio morbido, carezzevole, irreale. (Manuel Maverna)