FEU ROBERTSON  "Sticky situations with troubles"
   (2016 )

Strana creatura i Feu Robertson, quintetto francese originario di Reims nato nel 2010 con l’intento di ridefinire artisticamente una terra di nessuno a cavallo fra mondi lontanissimi e suggestioni mutuate da generi e sottogeneri di ogni sorta. Ispirato dalla penna colta del cantante e chitarrista Charlemagne Ganashine, ogni brano di “Sticky situations with troubles” è indifferentemente un cul-de-sac o un buco nero, percorso a ostacoli rivestito dal fascino dell’inclassificabile, musica che va alla deriva senza affidarsi a cervellotici ingorghi né sperimentalismi astratti, bensì ricorrendo ad un linguaggio in apparenza tanto ancestrale quanto semplificato: come trovarsi al cospetto di una versione sbilenca dei War On Drugs, al limite ad una forzatura schizoide dei Wilco. Il canto di Charlemagne, in un inglese forzato, calcato, dalla pronuncia imperfetta e dagli accenti imbastarditi, ondeggia sovente slabbrato e gutturale, scomposto e disordinato a riecheggiare il migliore Jeff Mangum, mantenendo queste lunghe tracce entro confini difficilmente identificabili: muovono dal folk, è forse la sola certezza con i Feu Robertson, ma lo rielaborano privandolo della linearità che usualmente lo contraddistingue, confondendo le acque, divenute gorgo intorbidito e limaccioso. Ogni canzone va a naufragare in angoli differenti rispetto all’idea suggerita all’abbrivio, toccando Dylan e Pogues, Will Oldham e Lumineers, mantenendosi sempre un passo al di qua del folk popolare tout court, strizzando altresì l’occhio ad una certa paradossale raffinatezza lo-fi, preludio a trame che si snodano sinuose e ambigue fino ad epiloghi imprevisti. E’ il caso dell’opener “Young wooly rhinoceros”, partenza lenta con campane chiesastiche ed inserto di sax a dettare un tema secondario che collassa nello sbracato bailamme à la Mumford & Sons dei tre minuti finali; o ancora degli accordi aperti di “Sunrise burning”, melodia ondivaga suggellata da una chiusa degna dei Pavement, dell’agonizzante cantilena di “Dark blue” o delle contorsioni psichedeliche di “Ballad of Loli”. In una sfuocata alternanza di acustico ed elettrico spiccano i dieci minuti di “Jungle life”, rollercoaster emozionale che sbanda e deraglia fra tre diverse linee armoniche (tra cui un prolungato riff quasi identico alla “Flavor” dei Girls in Hawaii), i nove di “Low future” con una intro che sembra quasi citare la “Fitter happier” di Yorke & soci prima di impennarsi in un virulento marasma stonesiano, gli altri dieci della nenia implosiva di “On the boundary” (Kozelek in acido?) e l’elaborato epitaffio di “Haunting old joys”, sballottata fra una delicata apertura agreste ed improvvise deflagrazioni verso il climax parossistico che la sigilla. Band inafferrabile capace di affabulare ed incantare grazie ad intarsi ed arabeschi che rasentano una apparente incomprensibilità, i Feu Robertson oscillano fra la grazia incupita di Cohen e la tetraggine dei Tindersticks, gli intrecci visionari di Syd Barrett ed una personale interpretazione di una musica indefinibile, forse non bella, ma statuaria nella sua ossessiva ricerca di una stralunata, tesa, intima intensità espressiva. (Manuel Maverna)