MICHAEL PISARO, HAKON STENE & KRISTINE TJOGERSEN  "Asleep, streets, pipes, tones"
   (2017 )

John Cage sosteneva che lo scopo dell'arte è placare la mente, in modo tale che essa sia più consapevole di ciò che accade. Un modo di pensare che si avvicina alla meditazione, al rilevare quello che accade senza attribuirgli un significato o una rappresentazione ulteriore. Michael Pisaro è un chitarrista e compositore americano molto debitore di Cage, della sua filosofia sul rumore come parte integrante della musica. Nel lavoro "Asleep, Streets, Pipes, Tones" (etichetta Hubro), Pisaro ci trasporta in un universo acustico fatto principalmente da soffi, respiri, suoni d'aria ottenuti da tubi e chitarra acustica elaborata. Gli esecutori sono Hakon Stene, percussionista anch'egli proveniente dalla musica sperimentale, e la clarinettista newyorkese Kristine Tjogersen. Stene è fondamentale non solo come esecutore materiale degli eventi rumoristici, ma anche come performer caratterizzante, dal vivo. Le tracce sono diciassette, e i titoli sono solo numeri romani che scandiscono un unico flusso. Alcune tracce hanno due capitoli assieme, infatti una si chiama "VI+VII" e un'altra "VIII+IX". Inutile dire che la suddivisione non giustifica un'analisi a compartimenti stagni di ogni singola traccia, poiché le variazioni sono minimali: la summa è un'esperienza che dura poco più di un'ora, in cui immergersi senza chiedersi come, dove, quando e perché. C'è solo il "cosa", ciò che è, o meglio, che accade, come nel situazionismo delle arti visive. E così, siamo accolti da un sibilo che ricorda l'acufene, quel ronzio che si può percepire nella testa. L'ascolto da subito quindi si fa viscerale, dal momento che troviamo inciso fuori un suono che dovremmo percepire solo dentro. I suoni di tubo (pipes, gli elementi sono richiamati nel titolo dell'album) sono a volte vibranti a volte statici, ma talvolta saturano lo spettro sonoro, non fino ad arrivare al rumore bianco ma quasi. Tjogersen con il clarinetto spesso esegue note gravi, ovviamente sono note intonate, ma non c'è né melodia né armonia, a parte in un caso, dove ci concede, assieme al suono elettronico sottostante, un bicordo in "X", che varia di un semitono (ad esempio: la-mi, la-fa). Sibili, clarinetto, soffi e respiri sono gli elementi costanti, che ogni tanto ospitano comparse impreviste come delle cantanti russe ("III") o un coro ("XV") che si fa sentire per una decina di secondi, per poi venire allontanato dai rumori, come dei segnali radio persi nello spazio. A intuito però si trattano di "samples" di repertorio, non di parti composte ex novo. In "XVII" ci sono note di pianoforte, come sempre allungate, dato che la ricerca è volta a marcare l'aria con dei drones, dei suoni lunghi e continui, molto suggestivi e, sia concesso il termine poco colto, intrippanti. La chitarra acustica di Pisaro compare furtivamente nel tessuto rumoroso. In "XIII" c'è uno scherzo cattivo: un pedale basso si presenta con la solita tranquillità, e poi siamo spaventati da dei cluster di organo a canne, che però sono ben poco aleatori. All'interno delle varie dissonanze, si può distinguere chiaramente un accordo minore. In "VIII+IX" la staticità dei suoni ricorda la celeberrima "Lux Aeterna" di Ligeti, e qui il sibilo acuto viene gradualmente raggiunto da una scossa elettrica avvertita al rallentatore, rumori di ferri strusciati, e si raggiunge una situazione che, dal punto di vista timbrico, è faticosamente descrivibile, quanto stupefacente. Ciò che balza all'orecchio nelle prime tracce è che, all'interno di ognuna, gli episodi rumorosi-musicali sono brevi e distaccati l'uno dall'altro da vari silenzi totali. Il silenzio quindi è parte integrante della composizione, non solo come pausa, ma proprio in quanto assenza di suono, per la gioia di John Cage. Chiaramente siamo di fronte ad un lavoro di nicchia, la speranza - ingenua - è che in America ci sia ancora lo spirito di tendere la mano al pubblico per guidarlo all'innovazione (innovazione che peraltro è ancora tale fin dalla musica concreta del dopoguerra...), contrapposto alla tendenza eurocolta di rinchiudersi in torri d'avorio. (Gilberto Ongaro)