THE CURE  "Seventeen seconds"
   (1980 )

Ecco “Seventeen seconds”, ecco i Cure. Dopo “Three imaginary boys” (I979) arriva il vero esordio del gruppo; un album fondamentale che ha segnato l’intero decennio ’80 ed influenzato moltissime band ispirate al suono dark e new wave. È il 1980 e, dopo le prove generali dell’anno precedente, il gruppo pare già aver raggiunto la piena maturità compositiva, non certo comune se si considera che i componenti hanno da pochi mesi passato i vent’anni. Per arricchire e completare il sound della band, al gruppo si aggiunge un tastierista (Matthieu Hartley) passando da terzetto a quartetto. A Robert Smith si affiancano Lol Tolhurst (alla batteria), il già citato Mattew Hartley e il bassista Simon Gallup, in sostituzione di Michael Dempsey. Quest’ultimo praticamente “estromesso” dal leader del gruppo dopo la pubblicazione del primo album, perché in contrasto con l’impronta musicale conferita alla band da Robert Smith. Non più un clima sereno e gioviale, ma composizioni tetre, intimiste e riflessive, tanto nella musica, quanto soprattutto nei testi: il dark sound dei Cure ha inizio. Anche la copertina cambia toni, e quella di “Seventeen seconds” raffigura una serie di alberi (a forest?) in un’immagine sfocata che molto lascia alla suggestione e alla interpretazione. La storia racconta che questo fu anche il primo album nel quale Robert Smith arrivò in studio con un pacchetto di canzoni già pronte, confrontandosi, solo in sala d’incisione, con gli altri membri della band, il cui contributo si limitò unicamente alla fase dell’arrangiamento. “Reflection” è l’introduzione strumentale cui segue “Play for today”, un brano, ancora oggi, da considerarsi un vero must dei Bis finali durante gli show dal vivo. Poi tre canzoni davvero avvolgenti: “Secrets”, “In your house” (soprattutto) e “Three”. “The final sound” è la seconda canzone strumentale dell’album che anticipa la fase finale del lavoro: “A forest”, “M”, “At night” e “Seventeen seconds”. Troppe parole potrebbero essere spese per la prima. Qui, invero, ci limiteremo a dire che “A forest” è divenuto il singolo più rappresentativo della band; un pezzo dall’efficacia incalcolabile ed il “quarantacinque” identificativo dei Cure. Insomma un vero e proprio inno, il cui riascolto non riesce ad attenuarne la suggestione ed il senso di smarrimento (“it’s always the same… again and again… and again"). Con “M” tutti gli strumenti trovano un’unione particolare e culminano con il dolce riff di Robert Smith che, sul finire, ci anticipa che bisogna stare pronti “for the next attack”. E l’attacco successivo arriva con la traccia n. 9. “At night” rappresenta un altro momento imprescindibile dell’album, le cui liriche sono una delle massime espressioni poetiche del signore del buio. Con un sound carico di malinconia, con la solita chitarra tagliente del leader, con la puntuale batteria semplice ma ossessiva e con il basso ipnotico di Gallup; “At night “ è poesia pura, e noi rimaniamo intenti ad ascoltare il silenzio, con la consapevolezza, però, che “ci vorrebbe qualcuno… someone has to be there”. La traccia omonima chiude, senza flessioni, “Seventeen seconds”. Un lavoro nel quale si potrebbe trovare il leit motiv della malinconia e della semplicità delle piccole cose e, soprattutto, un album nel quale ogni singola traccia si incastona perfettamente a quella successiva. Tuttavia, seppur difficile, è possibile cogliere quei brani che il tempo ha scelto come portabandiera di un intero periodo musicale. La già citata “A forest” (la cui bellezza nella versione in studio, risulterà, comunque, di gran lunga meno prorompente di quella riproposta dal vivo), ma anche “In your house”, “At night” e… sì, praticamente tutte. Cosa dire di più, se non che “Seventeen seconds” è un album perfetto. (Gianmario Mattacheo)