

			
KUF  "Pigna"
   (2018 )
		
			 Non c’è anglicismo che tenga nel nuovo album dei ravennati Kuf, in quanto estranei a tutto ciò: qui c’è tutta l’italianità possibile e su questo non ci piove. Proprio cosi signori: “Pigna” è un disco al fulmicotone che abbatte sospetti di esterofilia e suona, da capo a piedi, rigorosamente tricolore, con orgoglio e petto in fuori.  Gli indizi sono quelli dell’emo-core di metà anni ’90 che fece capo ai Punkreas, ma il quintetto emiliano riesce a dare al lavoro precise smussature d’esecuzione che sanno riparare  trascurabili ingenuità, più che altro dettate dell’enfasi passionale.  Lo screaming di Luca Rani è pressoché convincente, benché in alcuni tratti insista sull’eccessiva spinta emozionale.  I 10 pezzi svelano, tuttavia, risvolti sempre interessanti, come una proiezione di diapositive imbrunite con immagini shock a tinte forti, nelle quali la luce emerge dalle liriche veraci e voraci.  Loro cantano  “Fin qui tutto bene” e noi lo confermiamo convinti,  ritrovandoci delle “Matite” ficcate nell’orecchio con  pregevole spigolosità. Già, perché le chitarre ruggiscono in un turbinio circolare e le rare soste te le devi andare a cercare con il lanternino fino a “Neve”, placido episodio altamente fruibile e vagamente ipnotico. Non si ravvisa “Nebbia” per strada: semmai, nella traccia migliore dell’album fa capolino un sole che riscalda l’animo con canoni atipici di scrittura easy-emo. Se si potesse auscultare lo stomaco dei Kuf  noteremo quel frenetico via-vai sanguigno dettato dall’urgenza di palesare rabbia ed emozioni non più procrastinabili.  Sono, altresì, attenti osservatori della decadente società odierna e non si tirano indietro neppure nel citare, senza timori,  scandalosi delitti di Stato come “Tenco e Pasolini”. Insomma, “Pigna” risulta un lavoro forbito e corrosivo, con una chiara presa di (op)posizione in cui i Kuf palesano la speranza  di poter ritrovare presto, in un simbolico “Agosto”,  tutto quello scenario iridescente che ci offriva l’orizzonte, quando ancora c’era  la bellezza di chiamarlo così. (Max Casali)
Non c’è anglicismo che tenga nel nuovo album dei ravennati Kuf, in quanto estranei a tutto ciò: qui c’è tutta l’italianità possibile e su questo non ci piove. Proprio cosi signori: “Pigna” è un disco al fulmicotone che abbatte sospetti di esterofilia e suona, da capo a piedi, rigorosamente tricolore, con orgoglio e petto in fuori.  Gli indizi sono quelli dell’emo-core di metà anni ’90 che fece capo ai Punkreas, ma il quintetto emiliano riesce a dare al lavoro precise smussature d’esecuzione che sanno riparare  trascurabili ingenuità, più che altro dettate dell’enfasi passionale.  Lo screaming di Luca Rani è pressoché convincente, benché in alcuni tratti insista sull’eccessiva spinta emozionale.  I 10 pezzi svelano, tuttavia, risvolti sempre interessanti, come una proiezione di diapositive imbrunite con immagini shock a tinte forti, nelle quali la luce emerge dalle liriche veraci e voraci.  Loro cantano  “Fin qui tutto bene” e noi lo confermiamo convinti,  ritrovandoci delle “Matite” ficcate nell’orecchio con  pregevole spigolosità. Già, perché le chitarre ruggiscono in un turbinio circolare e le rare soste te le devi andare a cercare con il lanternino fino a “Neve”, placido episodio altamente fruibile e vagamente ipnotico. Non si ravvisa “Nebbia” per strada: semmai, nella traccia migliore dell’album fa capolino un sole che riscalda l’animo con canoni atipici di scrittura easy-emo. Se si potesse auscultare lo stomaco dei Kuf  noteremo quel frenetico via-vai sanguigno dettato dall’urgenza di palesare rabbia ed emozioni non più procrastinabili.  Sono, altresì, attenti osservatori della decadente società odierna e non si tirano indietro neppure nel citare, senza timori,  scandalosi delitti di Stato come “Tenco e Pasolini”. Insomma, “Pigna” risulta un lavoro forbito e corrosivo, con una chiara presa di (op)posizione in cui i Kuf palesano la speranza  di poter ritrovare presto, in un simbolico “Agosto”,  tutto quello scenario iridescente che ci offriva l’orizzonte, quando ancora c’era  la bellezza di chiamarlo così. (Max Casali)