THE JOHNNY CLASH PROJECT  "The Johnny Clash Project"
   (2018 )

Se alla prima impressione vi sembra di aver sbagliato a leggere, non siete i soli: si chiamano The Johnny Clash Project, e rivisitano le canzoni dei Clash nello stile di Johnny Cash, ovviamente riferendosi alla sua produzione più nota, quella country del tipo outlaw. L'accostamento non è poi così bislacco, pensando a entrambe le vivaci vite di Cash e di Joe Strummer, il quale, prima di fondare una delle band più importanti della storia del punk, suonava rockabilly e successivamente pubblicherà un album solista recuperando quello stile. Progetto nato nel 2013, per scherzo come quello dei Beatallica (che dal nome, si può intuire, ha creato un'unione ben più improbabile e grottesca, con canzoni dei Beatles unite a pezzi dei Metallica), il Johnny Clash Project ora arriva alla cristallizzazione, incidendo un omonimo album. Il quale è la reinterpretazione del primo omonimo Lp dei Clash, con "Janie Jones", "Remote control" eccetera. La musica si presta facilmente ad essere rielaborata, essendo trasferita in un altro genere che predilige semplicità armonica. Sono i testi che risultano quasi beffardi, in questo contesto. Cantare "I'm so bored with the U.S.A." in questo stile prettamente americano ha un che di paradossale, tant'è che proprio tale brano ospita anche il fiddle del tipico irlandese emigrato. E così si percepisce quel sottile filo, che può idealmente collegare un ribelle inglese a un cristiano battista statunitense: il fatto che il primo si dichiarava ostile allo strapotere dei bianchi yankee, mentre il secondo rappresentava proprio le contraddizioni del W.A.S.P. medio (White, Anglo Saxon, Protestant). Al di là di quest'oziosa speculazione filosofica, resta esilarante la trasformazione della battagliera "Hate and war" in un lento da sbornia, con tanto di cori malinconici da ragazzacci col sigaro, ed assolo di chitarra con slide alla hawaiana. Altro esempio calzante è "London's Burning", che diventa un 2/4 con la voce effettata col tipico riverbero slapback, che richiama immediatamente l'immaginario sonoro della balera tra i fienili. Oppure "What's my name", trasformato in una delicata ninna nanna per cowboy in 6/8. La rivisitazione continua fino alla fine, dove si trova "Garageland", che già nella sua versione originale strizzava l'occhio all'America con un'armonica a bocca. Ora qui l'amore per il cosiddetto "estremo Occidente" viene sancito definitivamente dalla comparsa del banjo. E il destino in fondo, come dice il testo, è lo stesso per moltissime band: "We are a garage band, we come from Garageland". E dalla terra dei garage di chi non si interessa di cosa facciano i ricchi, come cantava Strummer, i Johnny Clash Project ci salutano continuando la loro intensa attività live, che è la loro principale dimensione. (Gilberto Ongaro)