CHASMS  "The mirage"
   (2019 )

A volte – succede pure a voi, ne sono certo - mi capita di usare i dischi come fossero la colonna sonora del mio film del momento. Scena: in auto, bloccato nel traffico, otto di mattina. Colonna sonora: i La Dispute. Per dire.

Nel caso di “The mirage”, ritorno su etichetta Felte Records del duo losangelino Chasms a tre anni da “On the legs of love purified”, un film non l’ho trovato, fosse interno giorno o esterno notte: mi ha ingoiato, ovunque lo abbia ascoltato, in qualsiasi stato d’animo o situazione, sarà per il sibillino canto di sirena di Jess Labrador o per l’intensità plumbea del basso di Shannon Madden, o per lo straniante connubio della loro arte mista fatta di elettronica e decadenza, non saprei.

Frutto amaro di eventi luttuosi che hanno toccato e coinvolto da vicino entrambi i membri, “The mirage” è una sorta di funerale in musica, ma è un requiem che usa artifizi ben lontani dall’abituale cordoglio in minore che trascina con sé perdita, morte, smarrimento. Eppure riesce ad infondere alle sue esili tessiture un che di strisciante, un alito che si insinua fra trame viscide. Sono quarantotto minuti asfittici e dolenti dei quali stenti a comprendere se stiano amplificando il dolore o lo stiano mascherando, in qualche modo nascondendolo fra le spire di una musica compressa, abbacchiata sì, ma sensuale. Provocante e sinuoso nonostante tutto, “The mirage” oscilla con apparente candore – benché sempre velato da una nebbia che lo rende inafferrabile, impalpabile, diafano e svenevole – tra l’espressione sofferta dei contenuti e la veste laid-back che ne avvolge le forme.

A cavallo tra dub, shoegaze, dream pop e chissà cos’altro, si spinge in varie direzioni impastando sonorità che spaziano da Portishead a Sade, da Hope Sandoval alle Warpaint, dalla prima Siouxsie (ah, l’attacco di “Every heaven in between”!) ai Lycia, dai Massive Attack di “Protection” ai Cocteau Twins giù fino ai Seefeel, in un fluire di chitarre riverberate, voci lontane e linee di basso memori dei Cure (“Deep love deep pain”).

Ma la voce di Jess è un filo, un sussurro che pare provenire dall’oltretomba, un cinguettio flautato perfino accomodante, come un lallare fanciullesco che si perde fra echi, spirali di suoni circolari e volute di vapori che molto suggeriscono ed altrettanto celano alla vista.

Che sia o meno accompagnato da un gelido beat ossessivo e metronomico o da impennate della chitarra a sfigurarne l’afflato psichedelico e la generale contrizione (i sette minuti della title-track), l’album rimane catatonico e cantilenante (“Gratuitously cruel”), emanando tuttavia un fascino magnetico anche quando arranca in brani talora agonizzanti, affogati in atmosfere dilatate ed immersi in un clima trasognato e sospeso.

Questo è - forse - “The mirage”: canzoni amabili che sfilano depresse, impercettibilmente diverse l’una dall’altra, in una sinfonia ipnotica che gioca con ripetizioni minimaliste e con figure che inducono uno stato di trance quasi mistica, ad un passo dall’estasi, a due passi dall’incubo. (Manuel Maverna)