ROSLYN  "Nomi"
   (2019 )

Bello quando qualcuno va sopra le righe. Se poi scrive storto o in una grafìa incomprensibile, poco male: è il sopra che conta.

Ogni tanto ti tocca in sorte chi sa essere off, sebbene off non sembri: qualcuno come Mario Alessandro Camellini, che anche se non strazia la tela come gli Splatterpink va sopra. Senza strafare, con garbo. Con misura, paradossalmente. Ma sopra.

O qualcuno come i Roslyn, trio nato a Trani quasi vent’anni fa. “Nomi” – autoprodotto - è soltanto il secondo album di una carriera defilata, perfino toccante nella incrollabile ostinazione del suo percorso sincero e caparbio.

“Nomi” è un disco sovraesposto e spavaldo. Un cassetto che trabocca di storie, volti, immagini. Drammi, sostanzialmente. Vite rotte, morte comune, sfumature varie di nero.

Per raccontarlo: il canto espressionista, quasi attoriale, sbilenco e gutturale di Enzo de Gennaro. Un crooning imperfetto come un vetro crepato, un dolente, straziato lamento che si innalza al limite della stonatura sul ritornello ampio e ferito di “Noir”. Un singhiozzo che buca musica sofferente: una musica in bianco e nero. Spettrale, stralunata, evocativa. Qualcosa tra i Diaframma di “Boxe”, i Piccoli Animali Senza Espressione, i Dorian Gray e i Litfiba di “17 re”.

Anche nei suoni, che non vogliono essere contemporanei: come virare una foto seppia per invecchiarla, come antichizzare un mobile. Accenna sfumature prog, si appoggia a synth timidi, scivola sulle liquide frequenze del basso di Eleonora Russo, lavora di intarsio con le parti di chitarra di Nazario Vigilante.

Accordi secchi e tesi segnalano il tuo ingresso nella mia memoria.

Chitarra nervosa nell’opener “Kajal”, tagliente ed affilata a disegnare contrappunti contorti nel finale disperato di “Armagnac”, incombente ed irrequieta nell’amore perduto di “Loto”, modulata e dilatata a ricamare scenari foschi in “Dehors”, quasi tremante nell’incubo di “Carillon”.

E poi, i testi. Determinanti, ineludibili. Vanno letti, interpretati, riletti, apprezzati per la ricercatezza che trasudano. Ermetici, procedono per flash, la parte per il tutto. Quasi il cut-up tanto caro ad Agnelli&soci, quel capire-non capire che ti fa viaggiare, ma intriso di un lirismo che lo rende squisito ed onirico.

Sono parole rivestite di una magia straniante a creare piccoli mondi attraverso i molti personaggi che li abitano. Parole che regalano il piacere profondo della scoperta, quella che vive in un verso, in un’immagine solo pensata, in una scena da film descritta alla radio. Nella poesia di “Nodi”, nel battito zoppicante di “Apnea”, nella disperazione che affiora dalle onde in “Omi”, ballata di chiusura bella e triste come un quadro di Hopper.

C’è troppo in “Nomi”: non so in quanti se ne accorgeranno, e devo dire che un po’ mi dispiace.

Il rifuggire dalla mediocrità – spesso neppure aurea – è già elevarsi, fosse anche solo un tentativo. Puro, trasparente, tormentato come questo disco.

E’ il sopra che conta. (Manuel Maverna)