SUCCI  "Carne cruda a colazione"
   (2019 )

Di gente come Giovanni Succi ci sarà sempre bisogno. Artisti con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, come avessero vissuto tutto il possibile e/o visto la morte in faccia, come fossero essi stessi la signora in nero o soltanto – loro malgrado - dei messaggeri del futuro – brother, it is murder - prossimo venturo. O dell’apocalisse, che – cantava un guitto, e lo cantava bene - è quello che c’è già.

Emissari di qualche oscura forza che scorre sul fondo della musica, anime incastrate in percorsi di ben poca redenzione, bardi improbabili, voci aspre che possono cantare di qualsiasi cosa, ma che un disco brutto non lo faranno mai. Talenti indisciplinati, disallineati, ribelli. Animali indomabili, che tali devono restare: inutile spendere tempo per renderli docili, domestici, mansueti.

La musica storta di Succi l’ho scoperta grazie ai Bachi Da Pietra, power-duo sui generis nel quale Giovanni martoriava cordofoni in compagnia di Bruno Dorella, altro grande drop-out dell’ultimo ventennio, una di quelle anime di cui sopra. Invece, l’ultima volta che l’ho visto su un palco è stato lo scorso anno al Mi-Ami, al circolo Magnolia a Milano, tra Linate e l’Idroscalo. Era una sera di fine maggio, faceva già un caldo atroce: Succi suonava verso le sette e mezza su un palco perfino troppo grande, per lui che nella claustrofobica dimensione di piccoli locali rende forse al meglio quella indole sinistramente sciamanica, profetica, ieratica, insomma fate un po’ voi. Suonava con la band la sua musica sbilenca, cantando nel consueto registro baritonale sbavato, vagamente alcoolico, biascicato ma studiato, mica cotica. E indossava una maglietta – nera – con la “S” di Superman o di Succi, una strana maglia a tre quarti – nera – a maniche lunghe, la testa parzialmente coperta da un cappuccio – nero – che ne nascondeva in parte i lineamenti. Ci saranno stati ventotto gradi almeno.

Lo confesso: arrivai tardi a vederne l’esibizione perché ero troppo intento a lasciarmi stritolare dalla furia di Giorgieness – della quale sono perdutamente innamorato – presso un altro palco. Ma Succi mi ricordò quegli istanti di eternità che nell’agosto del 1988 mi regalarono i CCCP allo stadio di Lignano Sabbiadoro: caldo tropicale, Ferretti in un angolo del palco con addosso un cappotto – nero – lungo fino ai piedi. E la stessa sensazione di qualcosa di così piacevolmente malsano da digerire. E di un artista che se ne fotte di tutto, come talvolta è bello che sia.

In “Carne cruda a colazione” - nuovo capitolo della sua piccola storia nobile per La Tempesta/Soviet Studio a due anni da “Con ghiaccio” - tra sberleffi, raggiri e qualche sentimento stracciato sopravvissuto alla glaciazione va in scena una nuova rappresentazione priva di canovaccio, quasi un’improvvisazione su una ribalta scricchiolante e incerta.

Impossibile da etichettare, classificare, catalogare: Succi non è nessuno dei suddetti, va consumato sulla fiducia, prendere o lasciare. Ha un linguaggio crudo e diretto, tende a scarnificare, mai a sovraccaricare. Sottrae, se può. Evita la ridondanza: non una melodia di troppo, non un verso poetico e sdolcinato, non una qualche fine licenza (della quale sarebbe ben capace), mai una lieve licenziosità. Va al sodo, ma con classe: è l’unico che possa scrivere una canzone (“Arti”) in cui parla sì di caviglie, polpacci e cosce, tibie, legamenti e rotule, ma come sineddoche, o con valenza simbolista, eccetera. E se Manuel Agnelli apriva “Hai paura del buio?” addirittura con una bestemmia, Succi esordisce scherzando coi santi nello spoken word inequivocabile di “Povero zio”, che è bombe a mano e carezze col pugnal, tanto per mettere subito le cose in chiaro.

Sfotte e provoca critici e personaggi austeri (“Algoritmo”, con il tristemente vero sai son molto appassionato del tuo disco/l’ho sentito già una volta quasi tutto), stelline dell’indie (“I melliflui”), compagnie telefoniche (“Grazie per l’attesa” con il ficcante refrain no field/no feelings), insomma tutto ciò che gli capita a tiro, tu guarda che razza di argomenti, dov’è mai il cuore/amore/cielo/mare? Questo – e molto altro - è Succi: ha sì sprazzi di tenerezza, ma ispida, ruvida anch’essa come la sua voce strascicata e profonda.

Il cuore ce lo mette sempre, ma in quel modo scassato e brusco da piemontese un po’ orso e burbero, col sorriso di traverso. Lo apre appena nei tre minuti di “Cabrio”, tra un pianoforte dolente ed il violino di Rodrigo D’Erasmo a delineare un microcosmo visto dal finestrino; lo ripiega e lo rimette via nei sei minuti e mezzo di “Meglio di niente”, commiato amaro su un’aria cupa ed incombente, desolata ma non arrendevole, che non sarebbe da Succi; lo butta in piazza in quella tremante meraviglia di introversione che è “Grigia”, una storia d’amore in cui Alessandria pare Parigi, e può bastare così.

Ci può essere del bello in ogni cosa brutta, sembra dire.

Ma più verosimilmente, c’è qualcosa di brutto in ogni cosa bella. Ecco, forse è così. (Manuel Maverna)