OLD CASTLE  "Old Castle"
   (2019 )

Old Castle è un supergruppo, formato dall’esperto Robin Rapoon Storey (Zoviet France), pionere dell’industrial elettronico dagli anni ’80, assieme a Robert L. Pepper (Pas Musique) e a Shaun Sandor (Promute). Il trio si conosce dal 2011, ma è la prima volta che decide di incidere la propria unione in studio, dando all’album il suo stesso nome. L’LP “Old Castle”, appena uscito per Alrealon Musique, è costituito da 13 viaggi mentali, fra pattern ripetitivi che incantano. Il titolo “The thing in the window” fa già presagire qualcosa di disturbante che è davanti agli occhi, come un insetto che non se ne vuole andare e continua a sbattere sulla finestra aperta, senza uscire. Difatti, il suono portante di questa composizione è un impulso acuto e nasale, circondato da rumori distorti. Ma è con “Sing-ing, til my life ends” che ci avviamo nell’industrial per come la conosciamo: bassi pulsanti, sequenza di drum sintetica, e noise, ridondante come un tagliaerba intasato. E per questo fortemente realistico e affascinante. L’ipnosi di “10 skulls” invece si basa su una serie stabile di ottavi di un suono di chitarra distorta, che ricorda le magie dei Kraftwerk. “Singing is not my destiny” recupera l’esperienza di Rapoon con i raga indiani, e mette in loop un pattern dal suono orientale, circondato da motori di navicelle aliene. La situazione etno-trance prosegue con “Psych”, aperta da flauti riecheggianti su una percussione che fa ribattere dei cimbali. Quando i suoni synth iniziano a predominare, aumenta al contempo anche il contributo noise, ottenuto dalla moltiplicazione dei cimbali, che perdono il loro valore ritmico, per diventare un flusso tagliente. Il clima si pulisce immediatamente con “Purple monsters”, dove dei super bassi ci fanno nuotare in un woofer, trapanati da un kick con molto click (tradotto: un battito agitato e quasi liquido). A contribuire all’atmosfera malsana arrivano voci deformate, come un coro di dannati in un inferno elettronico, mentre fiati in lontananza stridono nelle dissonanze. Il battito viene gradualmente privato della sua funzione di kick (aumentando la modulazione) e diventando un uccellino (i tastieristi che giocano con la MicroKorg l’hanno provato tutti, questo scherzo). Ma, privati del ritmo, siamo abbandonati fra onde asfittiche. Nuovo ambiente con “Trial in the hoodoos”, dove, accanto a un battito martellante e sincopato, sentiamo corde strofinate di pianoforte, ed impulsi appuntiti. Come secondo tempo di questo ambiente, arriva “Cowboy Hood dreams”, dove i rumori vengono raggiunti e distanziati da un suono basso a dente di sega, che va e viene. Tutto va in saturazione in “Color of the sky”, e con “Singing in the moon” più o meno abbiamo la stessa ricetta industrial di crescendo rumoroso. Fanno capolino ancora i suoni indiani in “Colors like the rainbow”, stavolta disturbati più intensamente da gocce elettroniche, talvolta consistenti come stalattiti. Il clima si distende decisamente con “Wolkewaffe”, quasi dieci minuti di archi e disorientamento, mentre alla fine il saggio gufo ci dà il commiato, in “Wise old owl”, fra suoni luminescenti e cangianti, e percussioni agitate ma mantenute sullo sfondo, come pentolame sparso su una ghiaia da percorrere. “Old Castle” è una raccolta di suggestioni creativa e che stimola liberamente la fantasia dell’ascoltatore. (Gilberto Ongaro)