WAXAHATCHEE  "Saint Cloud"
   (2020 )

Kate Crutchfield non tradisce il suo credo e decide, senza snaturarsi, di ampliare il respiro del suo songwriting con arrangiamenti curati nei minimi dettagli che si applicano perfettamente a ciascuna canzone, come un grandioso vestito cucito su un corpo già di per sé convincente.

«And I take off driving», canta Kate Crutchfield in “Fire”, «Past places been tainted / I put on a good show for you». Nel quinto album solista, il migliore della sua carriera finora, col nome di Waxahatchee si possono rintracciare tanti spostamenti, alcuni geografici, come quelli che hanno accompagnato finora la vita di Crutchfield, dall’Alabama a New York per arrivare poi a Kansas City, altri, e sono la maggioranza, mentali, dell’animo, del cuore e dei sensi. Questa percezione di spostamento è rintracciabile ovunque nel disco. Il folk contemporaneo intrecciato a un moderno sound Americana di Crutchfield esplode in tutta la sua genuinità in Saint Cloud, aiutato in questa esplosione dalla sensibilità del produttore Brad Cook, che si limita ad allargare il panorama che Waxahatchee sta dipingendo da anni.

Le canzoni profumano di calore, di speranza e di vita. Pochi e semplici gli accordi che costruiscono i brani, in pieno stile Crutchfield, che non vuole distrarre l’ascoltatore e che, anzi, lo immerge, dalla testa ai piedi, in un mare di rimandi e di atmosfere diverse. Si possono sentire gli echi di Lucinda Williams, di Loretta Lynn e dei Wilco. Compare ogni tanto un organo o una chitarra elettrica, che conducono ancora di più in un’atmosfera familiare e intima, splendidamente dipinta dalla voce di Crutchfield che porta in sé una sfumatura bucolica ed entusiastica, una voce che sembra scoprire e dare un nome a tutto quello che trova di fronte alla sua mente con sorpresa e con gioia.

È un dato, questo, particolarmente evidente se si leggono i testi. C’è un’evoluzione, in quello che canta Waxahatchee, potente e profonda. Crutchfield si è resa conto che qualcosa nella sua vita è cambiato e affronta ciò con grinta e coraggio. Si tratta di un cambiamento positivo, del quale ha parlato in un’intervista recente per Rolling Stone, che le ha portato una concentrazione maggiore, una più forte convinzione in sé stessa e una spinta totalmente nuova all’interno del suo stesso songwriting. «I want it all», canta alla fine di “Oxbow”, lo splendido pezzo che apre Saint Cloud, nel quale si pongono le basi di ciò che sarà raccontato nel resto dell’album. «You got a friend in me», grida Crutchfield con sincero trasporto in “Ruby Falls”. Chitarra e batteria si inseguono timidi: non vogliono mai porre in secondo piano la voce e cercano, anzi, di combattere sullo sfondo i fantasmi interiori che ancora spaventano Crutchfield.

Ma questi fantasmi, in Saint Cloud, sono relegati allo sfondo, sono chiusi in prigione. Malinconia, dubbio e lotte interiori continuano a essere i temi fondanti del cantautorato di Waxahatchee, ma qui si respira soprattutto aria di libertà, si sente l’erba di un prato sul quale ci si è appena stesi in un giorno primaverile. Anche dove c’è disperazione o paura, come in “Fire” e “St. Cloud”, dove un organo spettrale e la voce di Crutchfield creano uno scenario sublime, la melodia cristallina rifugge il dolore. La guerra interiore di “War” viene affrontata con coraggio e con caparbietà, Crutchfield che canta «I’m not that untrue», mentre sempre in “Fire” si considera «wiser and slow and attuned».

L’album a tratti accarezza sonorità Anni Sessanta, flirtando con un folk-rock narrativo, meditativo e ambizioso, come in “The Eye” e “Ruby Falls”, che Crutchfield riesce a gestire con abilità e con talento, mentre “Lilacs”, “Can’t Do Much” e “Witches” la vedono alle prese con una propensione pop che raramente si era vista prima, sempre intrecciata, però, a un retroterra folk colmo di particolari e riferimenti molto raffinati. La gemma più preziosa, “Arkadelphia”, arriva verso la fine. L’influsso di Neil Young, del quale viene citata “Heart of Gold”, è evidente. Ci troviamo di nuovo di fronte a uno dei temi portanti del disco, lo spostamento incessante, la road song di confine, dove Arkadelphia è il nome di una strada che sembra diventare, pian piano, la strada della memoria.

Qui avvengono grandi mutamenti. Quando Crutchfield canta «I hold on tight, come in from far / I watch the baby run around the yard / Get lonely for what I’ll never know / Losing the thread of a story, overtold» siamo stati già trasportati in un’altra dimensione: da quella iniziale, geografica, siamo giunti a quella mentale, che è il vero viaggio attraverso cui Waxahatchee vuole condurre sé stessa. «I hope you can’t see what’s burning in me», dice Crutchfield quasi giunti alla conclusione, in un tono che sembra di implorazione o di sfida, consapevole del fatto che lungo il percorso Saint Cloud qualcosa di cruciale è successo.

Nell’accorgersi di ciò, come detto, Waxahatchee non snatura sé stessa. Quell’atmosfera indie-garage che accompagna Crutchfield dall’inizio della propria carriera non è messa per un secondo soltanto da parte. Semplicemente Saint Cloud è la naturale evoluzione di esso, un ampliamento di respiro e vedute decisivo e potente, che apre nuove chiavi di lettura per gli ascoltatori, e in primis, per Waxahatchee stessa. Al termine di un album grandioso Crutchfield, cantando «when I go», ci saluta – per ora – con un pianoforte e una chitarra dialoganti tra loro. Ci immaginiamo in una villa di campagna semi-abbandonata, tra polvere e rovi, mentre ci accorgiamo che anche nei luoghi più poveri o aspri a volte sbocciano fiori. (Samuele Conficoni)