OZZY OSBOURNE  "Ordinary man"
   (2020 )

Tutto parte da un apparente paradosso: stentavo a credere che il nuovo disco del Rock’n roll MadMan per antonomasia, protagonista con la sua famiglia del noto reality The Osbourne (trasmesso in Italia e negli Stati Uniti da MTV nei primi anni duemila e premiato con l'Emmy Award), artista eccentrico su cui si è detto tutto e il contrario di tutto, al secolo John Michael Osbourne, s’intitolasse proprio Ordinary Man. Va beh che Carl Gustav Jung parlava di coincidentia oppositorum ma forse devo stropicciarmi gli occhi… :-).

Questa mia titubanza nasceva da una banale constatazione: Ozzy è tutto fuorché un uomo comune, tanto che il personaggio “maledetto” da lui incarnato, sempre al confine fra il serio e il faceto (ma decisamente spostato nel secondo polo) su cui è centrata gran parte della sua ampia discografia [si veda: Blizzard of Ozz, 1981; Diary of a Madman, 1983; Bark at the Moon, 1986; The Ultimate Sin, 1988; No Rest for the Wicked, 1991; Ozzmosis, 1995] ha rischiato di ingessarlo in ruoli da cui lui stesso ha cercato più volte di prendere le distanze. Trovo ridicolo, ad esempio, prendere sul serio la sua identificazione col “Principe delle Tenebre”, tema ripreso in Get me through (da Down on earth, Sony Music, 2001): “I'm not the kind of person you think I am, I'm not the anti-christ or the iron man, I have a vision that I just can't contro, I feel I've lost my spirit and sold my soul”.

A scanso di equivoci, va detto che rispetto alle meteore del nulla fabbricate ad arte dall’industria discografica, la sua lunga carriera, originata alla fine degli anni sessanta con i Black Sabbath e proseguita da solista fino all’ultima reunion della storica band di Birmingham nell’album “13” (Vertigo Republic Record, 2013), non si fonda né sulle sue stravaganze né sulle sue tanto discusse “trasgressioni” (cosa c’è poi di più trasgressivo nella attuale società liquido-digitale postmoderna - scomodo Bauman - dei valori ancorati alla tradizione?), ma su un indiscutibile talento musicale che lo ha portato ad essere considerato una delle più significative icone dell’hard rock, nonché antesignano del (doom) metal. D’accordo, la sua voce dal vivo non brilla come quella dei trent’anni (come pretendere di più dopo tutto quello che ha passato?), ma il suo carisma comunicativo consente di mettere sullo sfondo quelle incertezze tecniche che fanno (comprensibilmente) storcere il naso al purista.

Con quest’ultimo lavoro, uscito alle soglie dell’emergenza covid e preceduto dalla rivelazione di essere affetto dal morbo di Parkinson, Ozzy lancia un appello (richiesta?) ai suoi fan (e al mondo?), forse avvertendo l’avanzare dell’età e, con essa, di trovarsi in una delle fasi più critiche della sua vita. Nel disco intende ripercorrerne i momenti salienti, con le sue luci e le sue ombre, le sue glorie e (riconoscendoli – commuovendosi? ) i suoi scivoloni [si vedano rispettivamente i suggestivi video clip di (a) Ordinary Man - dove Ozzy assiste da spettatore al film che ripropone degli episodi della sua esistenza https://www.youtube.com/watch?v=dBF78tA443A e di (b) Under the Graveyard https://www.youtube.com/watch?v=iuzyA5gDa4E]

Ma c’è di più: siamo forse di fronte ad uno dei più inconfessabili timori dell’uomo e dell’artista in particolare (rivelato nel brano che da il titolo al disco e che ospita la voce e il piano di un certo Elton John), l’oblio?
Yes, I've been a bad guy
Been higher than the blue sky
And the truth is I don't wanna die an ordinary man
I've made grown men cry
Don't know why I'm still alive
Yes, the truth is I don't wanna die an ordinary man
”.

E ben si sa che il triste destino della dimenticanza dei posteri a cui è particolarmente soggetto l’uomo qualunque descritto da Guglielmo Giannini negli anni 40-50 del Novecento - o se preferiamo la letteratura alla politica, l’uomo senza qualità di Robert Musil - è un incubo ancora più spaventoso della nostra sora morte corporale di francescana ascendenza.

Inoltrarsi ulteriormente nel labirinto biografico della leggendaria rockstar inglese rischierebbe di far dire banalità o ripetere cose dette e scritte migliaia di volte. Meglio fermarsi qua e ripartire da quello che Ozzy non è stato e che (forse) teme più di ogni altra cosa. Non ci rimane quindi che mettere il disco nel piatto (o nel lettore).

Si parte entrando dritti nella dantesca “città dolente” con Straight to hell. Per trovare l’inferno non occorre tuttavia avventurarsi nell’oltretomba ma è sufficiente guardare l’oceano di sofferenza che avvolge questa martoriata terra. Un suggestivo coro femminile fa da breve intro, ricomparendo nella fase centrale e nei momenti di più intenso pathos metallico. Le parole del titolo, cantate con ripetizione quasi ossessiva, configurano un’atmosfera cupa e inquietante che si allenta per poi ripartire con il rush finale [l’abbinamento fra musica e immagini nel video clip associato è estremamente efficace https://www.youtube.com/watch?v=kSRNrVjISRQ&list=PLBflXQtOsYKprKJJXY9Po_6p9NiFOa9O]

Prosegue All my life, altro brano di grande presa melodica segnato da quell’inconfondibile retrogusto malinconico ozzy-style impreziosito da riff di chitarra altamente espressivi. Con Goodbye siamo in territorio doom, la ritmica potente e cadenzata supporta un sound greve spezzato da improvvise e devastanti ripartenze strumentali.

Ordinary Man, anche per la presenza della pop-star Elton John, è il brano di punta: il motivo portante apparentemente (ed appositamente?) easy listening riesce a far breccia sulla sfera emotiva con un’intensità che richiama un altro capolavoro di Ozzy, Dreamer (da Down on earth, Sony Music, 2001).

Under the Graveyard, che come sì è detto ripercorre alcuni momenti drammatici della sua esistenza (dove appare provvidenziale la presenza della figura di Sharon, sua moglie), è forse il mio preferito essendo stato catturato dal suo groove profondo, malinconico, alternato a stacchi imponenti che lasciano fino alla fine un conturbante senso di tensione irrisolta.

Il viaggio continua con le note di armonica (suonata dallo stesso Ozzy) di Eat me (lato B del vinile) che inaugurano una traccia sostenuta da una ritmica battente che cala (ancora doom) nella parte centrale: breve suspense con enigmatico giro di basso, mega rullata e via con un decisa accelerazione finale spinta dalle solite chitarre nervose che preludono al ritornello finale. Godibile l’arpeggio di elettrica in Today is the end che introduce e collega l’avvicendarsi strofa-ritornello basati su note di immediato impatto appesantite da avvincenti schitarrate.

Eccoci a Scary little green man, altro brano trascinante con le potenzialità da hit, dove si apprezza una calibrata alternanza fra un sound iniziale pastoso e impennate che richiamano gli stilemi più classici dell’hard rock. I controcanti femminili (in grande spolvero) di vago sapore gospel presenti in Holy for tonight cadono proprio a pennello facendo da cornice ad un’atmosfera gaia in cui non mancano le tradizionali fughe di chitarra, prima della corsa finale.

Nella travolgente ritmica del brano di chiusura It’a a raid (con Post Malone), Ozzy rispolvera tutta la sua inconfondibile grinta e vena sabbathiana con una verve da far impallidire coloro che devono scimmiottare quello che al settantaduenne di cui stiamo parlando viene naturale. Il finale è letteralmente scatenato e accompagnato dai proverbiali scream.

Proviamo a tirare le fila: il gusto del songwriting può essere sottoposto alla prova dei più esigenti sommelier musicali, riuscendo a coniugare la potenza dell’hard rock con una presa melodica tale da impiantarsi con disinvoltura nei circuiti celebrali adibiti alla memoria uditiva. Pause e ripartenze sono gestite in modo magistrale, configurando un impeccabile mix di creatività, professionalità ed esperienza. L’asso nella manica va tuttavia cercato nella equipotenzialità delle sue 10 tracce (il CD contiene un bonus track): tutte o quasi potrebbero infatti rappresentare il brano hit di un album. Non è quindi un caso che il disco abbia scalato in tempi record le classifiche (vinile o CD), di molti paesi al mondo (USA in testa), (udite udite) Italia compresa.

Se la coincidenza della sua uscita con il periodo di emergenza sanitaria (seconda metà di febbraio) ci ha offerto senza volerlo un’ulteriore opportunità di catarsi musicale di fronte alle tante angosce del confinamento [non uso volutamente lock-down, rifacendomi alle posizioni dell’Accademia della Crusca da una parte – per chi volesse approfondire https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/in-margine-a-unepidemia-risvolti-linguistici-di-un-virus-ii-puntata/7914 - ed essendo assai contrariato dalla invasione degli anglicismi di matrice globocratico-mercatista che stanno mettendo a dura prova la sopravvivenza della nostra nobile lingua], mi auguro che Ozzy possa riprendere il tour con la sua formazione composta da musicisti del calibro di Zakk Wilde (chitarre), Tommy Clufteos (batteria), Rob "Blasko" Nicholson (basso) e dal figlio d’arte Adam Wakeman (tastiere), il cui padre Rick (altra leggenda del rock) è una vecchia conoscenza di Ozzy sin dai tempi di Sabbath bloody Sabbath (1973) [troviamo le sue magiche tastiere in Ozzmosis e la voce di Ozzy in Return to the centre of the Earth, 1999].

Un uomo (non)ordinario, probabilmente spaventato dall’oblio dei posteri, ci ha regalato l’ennesimo disco (stra)ordinario. “Non so se Dio o chi per lui mi sta a sentire, Senza riguardo, anch'io saprei che cosa dire…” cantava l’inconfondibile voce del Banco, Francesco Di Giacomo (Senza riguardo, da Urgentissimo, CBS, 1980): mi permetterei di chiederGli, magari “con riguardo”, di continuare a farci sorprendere e deliziare per almeno altri cento anni dalla Mus(ic)a e dalla straripante estrosità dell’inimitabile Rock’n roll MadMan. God save Ozzy! (MauroProg)