NERO KANE  "Tales of faith and lunacy"
   (2020 )

Il mondo di Nero Kane è buio.

Non un buio mortifero: un buio conciliante. Confortevole, perfino.

E’ il buio della sera che cala, non della notte che incombe. Non tenebra che atterrisce mentre inghiotte il viandante: piuttosto, semioscurità che suggerisce forme, sagome, profili.

Non inquieta: calma. Addirittura rasserena. Culla i suoi piccoli, li ninna al ritmo pigro di un dondolo che ondeggia come un metronomo, seguendo un movimento ipnotico, psichedelico, avvolgente.

Ogni brano è un mantra. Quando – sciamanico, premonitore – Nero intona in apertura “Lord won’t come/to save our souls” è semplicemente credibile: un predicatore che affabula gli astanti, platea di peccatori ammaliati dal guru.

In un oceano di contrizione sempre immancabilmente declinata in minore, questa musica docilmente sofferta resta avvinghiata con vago languore al canovaccio di una chitarra screziata da pochi effetti, alla melliflua dilatazione della tastiera, alla vocalità ieratica di Samantha Stella, compagna d’arte e di visioni che nelle sette tracce dell’album ricopre un ruolo preminente e centrale come non mai.

“Tales of faith and lunacy” segue di un paio d’anni il sorprendente esordio di “Love in a dying world” (qui la recensione), rispetto al quale il copione non cambia di una virgola, se non nel taglio dei testi: l’intimità del quadro permane immutata, ma il focus delle liriche si sposta dal personale all’universale, inglobando nel tessuto storie tratte da scorci di vite altrui.

Pubblicato in quattro formati (cd, vinile, musicassetta, digitale) per diverse etichette (rispettivamente BloodRock Records, Nasoni Records, Anacortes Records) e prodotto in Italia da Matt Bordin (Squadra Omega), suonato ed interpretato da Nero e Samantha con la partecipazione dello stesso Matt Bordin e di Nicola Manzan (Bologna Violenta), l’album risuona come un inno alla catarsi dalla valenza purificatrice, intriso di una spiritualità trascendente, vibrante, palpabile.

Umbratile e mesmerizzante, oscilla sinuoso e sornione su un registro che richiama talora certi solipsismi targati Mark Kozelek (l’arpeggio di “Mary of silence”, con la mesta eco del violoncello ad inseguire il timbro compassato di Nero), altrove infilandosi in un dedalo di elettricità trafitto dalla declamazione algida di Samantha, impregnata di sfumature à la Siouxsie tra modulazioni noisy delle chitarre (“Magdalene”).

Come una carovana nel deserto, tutto scorre uguale a sé stesso in una ossimorica fissità, onirica e stralunata: “Lost was the road” dipana la sua melodia circolare su un giro che somiglia ad una intro dei Fields Of The Nephilim; “I believe” striscia desolata e funerea in due minuti di pura afflizione; “Mechthild”, memore di Nico, è innervata dal crooning sinistramente cantilenante di Samantha, appoggiato ad una musica diafana ed elegantissima che disegna scenari foschi col solo ausilio di una strumentazione essenziale e di una voce che si fa prezioso suono aggiunto.

La chiusura è affidata ancora al canto di Samantha, profondo come un lago, teso come un arco: i dieci minuti di “Angelene’s desert” arrancano su un giro del synth formato da quattro accordi ripetuti di continuo, mentre la voce si infila in cunicoli melodrammatici degni del Marc Almond di “Saint Judy”, con corollario di violoncello e finale aperto, lasciato vagare come uno spettro sul commiato chiesastico dell’organo.

Il resto sono fantasmi tra le dune, al crepuscolo.

Immagini indistinte, vestimenti leggieri scossi dal vento.

E buio.

First chill, then stupor, then the letting go. (Manuel Maverna)