AMARI  "Grand Master Mogol"
   (2006 )

E' il terzo album degli Amari, pubblicato da “Riotmaker” e distribuito Wide. Nelle loro canzoni si fondono rime hip hop in italiano e suoni elettronici o meglio 'indietronici', riconducibili a quelli dei gruppi resi celebri dall’etichetta tedesca MORR Music (Lali Puna, Styrofoam, Isan etc). Qualcuno li ha definiti come l’incontro tra Lucio Battisti ed i tedeschi Notwist, questo per cercare di definire un suono che oltre alla melodia propone un intrigante tappeto di suoni elettronici e l’uso di chitarre tipicamente indie. “Conoscere gente sul treno” è l’ultimo singolo estratto in rotazione sulle principali tv musicali italiane. Gli Amari nascono a Udine nel 1996 dall’idea malsana di Pasta e Dariella: lo scopo è vedere cosa potevano ricavare dall’hip hop se lo tormentavano un po’. Con un campionatore e parecchio spleen adolescenziale, i due iniziano una gavetta fatta di cassettine e concerti: funziona, si fanno un po’ conoscere e stringono amicizia con i 21, con i quali nel 1999 pubblicano “Il Contingente”, sguardo cattivello sull’hip hop. Ma i due non ce la fanno ad accontentarsi e introducono nella band il bassista Cero e, dall’esperienza del Contingente, recuperano il dj H.C.Rebel. Così, a quattro, ricominciano a fare altro. Ne viene fuori un miscuglio di rock, psichedelia, hip hop deviato il tutto spacciato per semplice rap. Vincono Arezzo Wave del 2000 e suonano tra le band emergenti al festival a luglio. Ad agosto pubblicano su Riotmaker (il loro collettivo/etichetta che oggi conta nomi quali Fare Soldi e Scuola Furano) il frutto di questo anno di sound, “Corporali”: si scopre che dentro c’è l’elettronica e pure il post-rock. Lo staff di Arezzo Wave decide di prenderli sotto la propria ala con l’etichetta Ondanomala e li riporta in studio per pubblicare nuovo materiale. Si parte nel 2001 con “Guida Verde e.p.”, tre brani che fanno ricordare agli Amari che sanno anche scrivere canzoni pop, e si continua con la conferma l’anno successivo di questa teoria tramite la pubblicazione di “Apotheke”, nove brani zeppi di ritornelli in cui oltre al rap spuntano le chitarre. E poi, come sempre, ancora concerti. Intanto le esigenze di una musica che diventa sempre più densa e complessa portano il gruppo ad allargarsi: arrivano Marcopiano alle chitarre e tastiere e Carletto Baracus alla batteria. E i live degli Amari diventano indie-rock. Il rap torna nel 2003 nel loro album più sperimentale, “Gamera”. Un miscuglio forsennato di schegge, schizzi e spruzzi di qualsiasi cosa. Un calderone postmoderno che coniuga con coraggio e menefreghismo elettronica, hip hop, demenzialità, melodie infantili, campionamenti dal sapore surreale, sarcasmo, piccole canzoni lasciate a metà e dance obliqua. Vengono in mente i Casino Royale, ma è piuttosto un azzardo delirante e incosciente che caratterizza il lavoro: il cut up sperimentale dei testi, la sferzante ironia, la delicatezza indietronica e lo sperimentalismo rap di casa Anticon. Destrutturazione, minimalismo pop e massimalismo sonoro. Il gruppo gioca col rock sbilenco e poetico dei Radiohead, il velluto degli Air, il tiro di Aphex Twin e l’ingordigia dei Beastie Boys più onnivori. Il disco è un successo e le numerose date live in tutta Italia lo testimoniano. Nel 2005, gli Amari cambiano il passo. Dopo la sfida vinta di “Gamera”, il gruppo si è preso due anni per far maturare, crescere e “decantare” testi e musiche, suoni e arrangiamenti. “Grand Master Mogol” (Riotmaker) mette le carte in tavola già dal titolo, mischiando le origini mai dimenticate (l’hip hop del “classico” Grand Master Flash), una sensibilità pop ormai matura (si chiama in causa Mogol, e quindi Battisti) e un’allegra e nostalgica estetica dei tempi che furono (il Gran Mogol di quell’icona che è Diario delle Giovani Marmotte). Il disco è quanto di meglio abbia sfornato il gruppo: la miscela tra melodia a presa rapida, testi così sinceri da rischiare di diventare inni generazionali e una ricerca sonora tutt’altro che sprovveduta è ormai imbattibile. “Conoscere gente sul treno” sembra Battisti che canta con i Notwist remixati dagli LCD Soundsystem; “Love management” chiama in causa Samuele Bersani, complice un testo agrodolce che farà commuovere e pensare; “Arte bruciante” è un tributo al sound glitch-oriented di marca Morr Music; “Tremendamente belli” è un sarcastico j’accuse al trendysmo della scena indie, mentre “Bolognina revolution” infila frasi dal micidiale peso specifico come “posso nascondermi dietro l’alone di una generazione che le rivoluzioni le pensa sul divano”, segno che la leggerezza del gruppo è tutt’altro che da prendere alla leggera. “Grand Master Mogol” vive di un’ispirazione non comune per ritornelli classicamente italiani, adagiati su basi curatissime, stratificate e complesse, che utilizzano con invidiabile maestria un tessuto strumentale basso/chitarra dai sapori indie rock, diavolerie sperimentali alla Antipop Consortium e il lessico base del rap fatto di loop, scratch e campionamenti. L’attenzione al dettaglio si rivela ascolto dopo ascolto, mentre l’eleganza e il gusto degli arrangiamenti hanno l’effetto immediato di incollare orecchio e cervello, rendendo le canzoni del disco orecchiabili e trasversali, fruibili da ogni tipo di ascoltatore, dall’appassionato di DJ Shadow alla massaia distratta che fa la fila al supermarket. Hip pop, pop “sbagliato”, modernariato musicale, cantautorato postmoderno: tante le etichette usate per definire l’album capolavoro degli Amari. Ne manca una, forse la più importante: emozionante. Sopra la densa e stilosa coltre sonora studiata dal gruppo, sopra il costante riferimento estetico agli anni ’80, sopra l’attitudine scanzonata e colorata, svetta ciò che distingue chi ha veramente qualcosa da dire da chi, in balia delle mode, non potrà mai andare oltre diligenti esercizi di stile: la capacità di far ridere, commuovere e ballare allo stesso tempo, quando meno te l’aspetti, con parole che non ricordavi così semplici.