CLOSET DISCO QUEEN & THE FLYING RACLETTES  "Omelette du fromage"
   (2021 )

Introdotto - poi trafitto - dal drumming forsennato e dal riff pestifero che scuotono in un delirio parossistico gli otto minuti dell’opener “Melolo-Aromatomat”, “Omelette du fromage”, su label Hummus Records, è il secondo full-length di inediti del duo svizzero Closet Disco Queen, per l’occasione allargatosi a quartetto con l’ingresso nella line-up dei Flying Raclettes, ossia il chitarrista Kevin Galland ed il bassista Chadi Messmer.

Nato nel 2014 come duo formato dal chitarrista Jona Nido e dal batterista Luc Hess, il progetto Closet Disco Queen pubblica il primo omonimo album l’anno successivo, seguito da due ep e da un live che riunisce due diverse esibizioni – la prima in Russia, la seconda in Francia – risalenti al 2016 e al 2017.

Registrato in poco più di due settimane in sperduta località Bruson/Champsec nel Valais - versante francese delle alpi svizzere - in una scuola abbandonata concessa per l’occasione dagli organizzatori del Palp Festival, manifestazione itinerante che offre ogni anno concerti in luoghi tanto bucolici quanto improbabili, “Omelette du fromage” (il titolo trae ispirazione da un episodio de “Il laboratorio di Dexter”, cartone animato del 1996) caracolla fin dalla copertina su un filo sottile tra humour e nonsense, allestendo un pastiche dadaista che si offre a letture, interpretazioni ed accostamenti in totale libertà.

Provocatoriamente e sarcasticamente definiti nella cartella stampa come “una versione senza talento dei Mars Volta” (sempre a proposito di autoironia), i quattro picchiano come forsennati in trentotto minuti tesi e compatti, ubriacanti ed incalzanti, a tratti perfino disturbanti, cullati d’improvviso in sporadiche oasi di inattesa pace (il break languido a metà della già citata “Melolo-Aromatomat”); per quanto prevalente, il focus insistito ed ossessivo sulle dinamiche e sull’aspetto ritmico non è mai a tal punto invasivo da sacrificare la costruzione dei brani, che rimangono allettanti nonostante un’apparenza ostica e spigolosa.

Interamente strumentale, attraversato dalla brillante frenesia di una non comune bizzarria creativa, l’album propone sette composizioni che impastano schegge di math e post-rock con una insopprimibile vena psych a fungere da collante: un po’ come se i Battles suonassero pezzi dei 75 Dollar Bill, ma da un punto di vista meno intellettuale e più viscerale.

Nonostante una martellante solidità di fondo, brani ondivaghi ed inafferrabili - quasi si baloccassero in una continua operazione di depistaggio - si mostrano, si nascondono, mutano pelle, migrano altrove: il controtempo nevrotico di “Glutentag”, squassato dagli incastri basso/batteria, è quasi materiale per i Black Midi; “Flugensaft” si lancia in un tiratissimo up-tempo squadrato, dapprima placato in un inciso trasognato e poi preso a sberle dalle mitragliate del basso; marziale e titanica, “Goussepaille” avanza come un panzer sviluppando una intro di zeppelinana memoria, mentre la sassata à la Shellac di “Spartacuisse” ruota attorno a figure delle chitarre tipicamente albiniane, tra staccati violentissimi, dissonanze assortite e accordature sbilenche in un crescendo che affoga ogni idea di melodia nel finale convulso, preludio all’accelerazione assassina di “Flugantaj Raketoj”, in fuga verso territori metal.

Chiudono l’album i dodici minuti e mezzo di “Gigadodane”, piccola suite che lievita imperiosa gonfiandosi come un fiume in piena: dall’abbrivio percussivo in apertura fino allo stordente marasma elettrico che inghiotte l’ultima eco in coda, fra tribalismi ossessivi e divagazioni free della chitarra in stile Yo La Tengo va in scena la sublimazione di quest’arte visionaria, edificata su fondamenta precarie, eretta granitica in fogge maestose e fatta a pezzi per divertimento, ma capace di regalare un senso di straniante, caotica meraviglia. (Manuel Maverna)