PIERROT LUNAIRE  "Gudrun"
   (1977 )

Passando all’ascolto del secondo album dei Pierrot Lunaire, ''Gudrun'', si ha la netta impressione di trovarci al cospetto di un altro gruppo, di altri musicisti, tanto esso è diverso dall’omonimo esordio discografico della band.

In realtà i soli Arturo Stalteri e Gaio Chiocchio restano nell’ensemble mentre Vincenzo Caporaletti, l’anima Rock del gruppo, lascia i compagni e viene rimpiazzato da Massimo Buzzi che suona la batteria solo in alcuni brani.

Tutte le parti strumentali, con largo impiego anche di strumenti esotici o comunque diversi dall’usuale, sono affidate ai due musicisti i quali dimostrano grande dimestichezza nel dipingere una tavolozza sonora assai complicata di qualunque forma o colore essa sia composta. Il canto viene affidato alla bella voce della soprano inglese Jacqueline Darby e la musica vira dal folk progressive dell’album precedente ad un linguaggio classico colto dove non mancano incursioni nell’avanguardia e nella sperimentazione.

In ''Gudrun'' i Pierrot Lunaire aggiustano dunque il tiro e fanno centro proponendo musiche i cui itinerari espressivi risultano arditi e di difficile esecuzione e fruizione, ma non per questo si può dire pecchino di un fascino tutto particolare. In questo terreno si muove con estrema disinvoltura Arturo Stalteri il cui lavoro agli strumenti, in particolare al piano, appare luminoso e ben dosato, congeniale allo svolgimento delle intricate tessiture armoniche.

In ogni caso la ricerca di nuove vie espressive difficilmente si traduce nel semplice esercizio di stile o nella sterile sperimentazione fine a sé stessa. La dialettica musicale si giova di suoni e melodie inedite, diverse dal solito cliché a cui siamo un po’ tutti abituati; eppure questo stravagante amalgama sonoro riesce a coinvolgere emotivamente malgrado la sua apparente freddezza.

E qui sta il grande pregio di ''Gudrun'': nuovo, differente, ricco di geniali intuizioni, ardito, sperimentale ma con una carica di umano calore che lo distingue da altri lavori del genere. In questa ottica ben si inserisce ''Giovane Madre'', la cui dirompente tribalità ritmica si integra alla perfezione con la frenetica modernità dei suoni delle tastiere e dei congegni elettronici riuscendo a trasmettere non poche sensazioni. Lo stesso si può dire per la nenia strumental/narrativa di ''Sonde In Profondità'', introdotta da annunci di un radio giornale d’altri tempi, un po’ in stile Floydiano.

Molto efficace in ogni episodio del disco è il pirotecnico virtuosismo di Arturo Stalteri al piano che, insieme agli eccentrici interventi di Gaio Chiocchio al sitar, allo shaj baja, al lunik e ad altri strumenti più convenzionali, sostengono la raffinata interpretazione vocale della Darby.

La conclusiva ''Mein Armer Italiener'' parte con uno sgangherato coro per poi, tra dialoghi di memoria Floydiana e esplosioni elettriche, trasformarsi in una chanson stile anni ’30 caratterizzata da un ritmo ossessivo, cadenzato, mettendo a nudo un evidente gusto per il melodramma dove la tensione si accresce con progressione incalzante fino ad arrivare al finale tragicamente marziale.

In definitiva ''Gudrun'' è da considerarsi un album unico per l’inconsueto approccio alle partiture musicali, per la creatività bizzarra messa in campo dai musicisti, per la sperimentazione di nuovi percorsi, per lo spiccato ricorso a tematiche musicali colte, caratteristiche queste che non trovano riscontro alcuno nel panorama musicale italiano di quel periodo.

Un lavoro di assai difficile assimilazione quindi, perché fuori dai consueti schemi, tutt’altro che banale: qui non si trovano melodie “risentite”, che danno quel senso di rassicurante ordinarietà che molti cercano nella musica, l’approccio all’ascolto di incisioni di questo tipo deve essere piuttosto quello dell’esploratore che naviga verso l’ignoto alla scoperta di nuovi mondi, e quando li scopre trova spesso tesori incommensurabili.

''Gudrun'' si fregia di poter essere uno di quei tesori, ma necessita di una buona dose di apertura mentale e di un animo privo di preconcetti, di essere spiriti liberi per riuscire a godere appieno delle profonde emozioni che un album del genere può essere in grado di trasmettere. Se l’omonimo disco di esordio dei Pierrot Lunaire si può efficacemente descrivere ricorrendo all’immagine di un prezioso scrigno contenente antichi e inestimabili tesori, ''Gudrun'' rappresenta per il gruppo romano un multicromatico laboratorio di suoni, una fucina di idee dove le stesse vengono forgiate a dovere e tramandate ai posteri. (Moreno Lenzi)