SIROM  "The liquified throne of simplicity"
   (2022 )

Folk immaginario dalla Slovenia. Così è definita la musica dei Širom, incisa nel disco “The Liquified Throne of Simplicity”, uscito per Glitterbeat. Questo folk è immaginario, perché non è intrinsecamente sloveno. Gli strumenti utilizzati hanno origini da posti diversi, come il balafon, che proviene dall'Africa subsahariana occidentale; il daf, tamburo dell'Asia Centrale; la viola, che, ok, è quasi universale. Ma poi banjo, lira, liuto, ghironda, ocarina; guembri e ribab (Marocco). Alcuni strumenti sì, si avvicinano geograficamente, come il tampura brač, una sorta di chitarra, diffusa in area balcanica. Infine, abbiamo diverse percussioni e risuonatori. A suonare tutti questi strumenti sono in tre, una donna e due uomini.

I poliedrici musicisti si ispirano all'ambiente che li circonda, tenendo presente anche il passato storico, ricco di influenze, dall'impero bizantino fino alla Jugoslavia. Ma il risultato, seppur a tratti caotico, non è mai un compitino storico-didattico. Al contrario, si tratta di cinque brani, quattro della durata di 20 minuti e un quinto di chiusura di 3'40”, dalla forte carica ipnotica e dal fascino dello straniamento. Ed un sapore sì folk, ma che non si riesce a collocare.

Il “trono liquefatto della semplicità” si apre con “Wilted Superstition Engaged in Copulation”, con un giro di guembri (strumento che, per capirci, suona come un basso), e sopra a questo viaggiano le percussioni e uno strano fischio risuonante, uno di quei suoni che piacerebbero a Peter Gabriel per i suoi ambienti world. Dopo un po', siamo raggiunti da viola e ghironda, entrando in un trip fiabesco, come una sorta di clima fatato, che però non si sviluppa, creando loop con variazioni minimali dove perdersi.

“Grazes, Wrinkles, Drifts into Sleep” si può suddividere in due metà; una tranquilla, col balafon percosso e gli altri strumenti che bene o male improvvisano con serenità. La seconda metà aumenta di intensità, fino a una centrifuga sonora sempre più impetuosa, che si arresterà all'improvviso. “A Bluish Flickering” introduce l'utilizzo delle voci, che cantano in polifonia. Poi si avvia una ritmica percussiva da rituale, ed un crescendo angoscioso, contraddetto alla fine dal banjo. “Prods the Fire with a Bone, Rolls over with a Snake” è la più trascinante, mentre la voce femminile canta dei vocalizzi di “ih”. Qui si sente anche l'elaborazione elettroacustica, assieme a tantissima altra roba: è il brano con più colori, dove probabilmente ci sono tutti gli strumenti menzionati.

“I Unveil a Peppercorn to See It Vanish” infine chiude l'album concedendo delle progressioni armoniche, uscendo quindi dai prolungamenti dei “pedali”. Non importa se non riuscite a decodificare ciò che ascoltate: è proprio la confusione geografica, il melting pot timbrico, a rendere ascoltabile il suono di un mondo utopico, fatto di continui scambi interculturali e rispetto reciproco. E poi è anche carino vederli suonare dal vivo, a giudicare da ciò che si vede sul Tubo. (Gilberto Ongaro)