BLACK OX ORKESTAR  "Everything returns"
   (2023 )

E’ una questione personale, ma parlando di musica poche cose mi mettono nella giusta disposizione d’animo quanto la musica triste. In una ideale graduatoria di tristezza, al primo posto in senso decrescente metto la musica russa, al secondo la klezmer, al terzo il folk balcanico (giù fino al rebetiko), al quarto la francese, al quinto la morna capoverdiana.

E’ una questione di tonalità maggiori/minori, ovvio: musica russa e klezmer pare facciano a gara per chi impiega meno maggiori: passano da un minore all’altro, in un gorgo di tristezza dilagante che le rende entrambe perfette per accompagnare sentimenti di mestizia et similia. Questo album è scopertamente klezmer, quindi ci mette sì e no un paio di minuti dell’opener strumentale “Tish Nign” a guastarvi l’umore, sempre che non siate nel mood ideale come il sottoscritto, per il quale rappresenta un’autentica benedizione ed una fonte di gradita afflizione in cui crogiolarsi beatamente.

Ora: solo per introdurre agli astanti la Black Ox Orkestar occorrerebbe una monografia appositamente incentrata su storia, finalità e portata di questo progetto multietnico e stratificato, multiculturale e sfaccettato, ben più articolato rispetto a semplici entità quali un disco o una band, ma siamo Music Map, diamo notizie e scriviamo recensioni, se volete approfondimenti il consiglio è di cercarli altrove, ci mancherebbe.

Quindi: Black Ox Orkestar è un meraviglioso quartetto - per tre quarti canadese, per tre quarti formato da membri del collettivo A Silver Mt. Zion - che pubblica per l’altrettanto meravigliosa Constellation, etichetta di Montréal senza bisogno di presentazioni. I quattro membri sono Thierry Amar, Gabriel Levine, Scott Gilmore e Jessica Moss, line-up immutata a quasi vent’anni dall’esordio di “Ver Tanzt?” e a poco più di quindici da “Nisht Azoy”, secondo ed ultimo lavoro fino a questo statuario “Everything Returns”, rentrée che del passato conserva intatta purezza, magia, fascino, profondità.

Avvolgente, palpitante, emozionale ed impetuoso fin quasi all’eccesso, è un crogiolo di possibilità in cui smarrirsi, quarantacinque minuti di gloria e brividi nei quali davanti agli occhi – ma soprattutto dietro agli occhi - scorre tutto il necessario, portato dal flusso del fiume che è la vita: ricordi nitidi e ricordi sfuocati, immagini vivide, memorie di cose fatte e non fatte, desideri sublimati o frustrati, volti familiari o mai conosciuti, lo scivolare del tempo, idiomi ignoti eppure comprensibili nel loro linguaggio universale, suoni capaci di parlare ad una parte di te, quella celata alla vista e ben protetta in recessi insondabili della mente.

Come in un quadro di Chagall, un villaggio brulicante diventa il mondo intero, la parte per il tutto. Yiddish, tedesco, francese, inglese si mischiano in una babele raccontata con armonie strazianti a muoversi sul filo di una malinconia debordante che sfrutta sporadiche contaminazioni jazz, affidandosi largamente al suo intarsio di fiati, archi, ritmi da marching band e melodie ampie: dallo spleen spaccacuore di “Mizrakh Mi Ma’arav” al valzer sbilenco di “Epigenetik”, chiudendo gli occhi ci si potrebbe indifferentemente figurare ad un matrimonio, ad un funerale, ad una commemorazione, ad una convention, ad una processione, in ogni luogo ed in nessun luogo.

Si potrebbe magari disquisire in tono serioso e plumbeo di cultura popolare, di tradizione, di molta comune vita e di altrettanta comune morte, di rigurgiti nazionalisti, di razzismo dilagante, di migranti e rifugiati, delle prossime legioni di IDPs o di diritti umani violati e vilipesi. O si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore, un bel mondo solo con l’odio ma senza l’amore, e vedere di nascosto l’effetto che fa; intanto, ci basterà l’incanto senza tempo di questa band e di questo disco, un capolavoro che descrivervi non saprei. (Manuel Maverna)