OTTODIX  "Arca"
   (2023 )

Con Ottodix non puoi mai cavartela a buon mercato.

Parte alto, e spinge. Richiede disponibilità, esige dedizione. Va ben oltre la musica, che sembra talora un mezzo per uno scopo, atto a veicolarne la filosofia: riflessione acuta e profonda sul senso delle cose, stipata a forza nella valigia della vita.

Pubblicato per Vrec/Audioglobe, “Arca” è materia ardua: as usual, come già i due precedenti capitoli della trilogia, “Micromega” (2017) e “Entanglement” (2020), è progetto ambizioso e colto, elaborato concept sci-fi incentrato su una cosmogonia utopica e visionaria, prodromo alla costruzione di un futuro migliore (o forse solo di un futuro altro), ancorché incerto e precario. E, as usual, non si crogiola nella sua complessità: semplicemente, non conosce altra modalità espressiva se non quella che unisce - in linea tutt’altro che retta - il pensiero e la sua manifestazione.

E’ un’incessante ascesa, fieramente sfidante, pervasa da un ineludibile stato di persistente tensione intellettuale. Qual è l’impresa più improba, visto che pur sempre di un disco si tratta? Conservare intatto l’interesse per l’ascolto, pur sviscerando il tema in forme e contenuti impegnativi. Il lavoro è smisuratamente intenso, ma è anche bello? Le nude canzoni, svincolate dal contesto, funzionano di per sé?

Sì: sono sontuosamente arrangiate, prodotte con gusto, rifinite con classe, ma non è il punto centrale, e forse non ha nemmeno importanza, perché non stiamo parlando di intrattenimento tout court. Piuttosto, questa è conoscenza, filtrata attraverso strati di letteratura, filosofia, scienza, libertà della ragione. In “Arca” trovano spazio brani che assumono la forma-canzone, anche in piacevole guisa, ma l’impressione prevalente è quella di assistere ad un musical in veste di trattato (o viceversa), ad un’opera teatrale impervia fin dall’architettura – concettuale, contenutistica, grafica persino – che l’accompagna in inscindibile unità. L’idea alla base è la fuga dell’intera umanità dal mondo attuale a bordo di un’Arca 2.0 suddivisa in sei enormi distretti, ciascuno dei quali deputato ad una specifica funzione, approfondita nei sei pezzi portanti dell’album. A questi, vanno aggiunti due brani introduttivi ed uno di chiusura, oltre a sei brevi intermezzi nei quali una voce femminile recitativa introduce al prossimo distretto.

Superfluo ed inessenziale – forse addirittura improprio - addentrarsi in una meticolosa analisi delle singole tracce, strutturalmente figlie della new-wave, di Franco Battiato, dell’elettronica for the masses tra ’80 e ’90, ma con sonorità prodigiosamente adattate ai tempi; vano sarebbe il tentativo di sviscerare gli aspetti testuali di cui l’album è a tal punto intriso da meritare disamina a sé; pretenzioso apparirebbe sintetizzare in poche righe una narrazione che merita un ascolto immersivo, attento quanto basta a percepirne criticamente l’essenza. Suggestivo l’impianto, da brividi la summa di “Memorandom” (l’uomo senza prove/nega tutto e poi mente/come il vizio degli amanti/di giurare per sempre) così come il sovvertimento del determinismo operato in “Techne”, in equilibrio instabile tra la trappola causa-effetto (ci serviranno macchine per fare nuove macchine/pensate a loro volta per progettare macchine) e l’invocazione del libero arbitrio (ci serviranno uomini in grado di comprendere/se premere lo stop).

Alla fine, siamo tutti cosmonaufraghi migranti alla ricerca più o meno disperata – ma consapevole – di scenari futuribili, figli della Storia circolare di “Utopia” (l’esigenza di sfidare buchi neri e l’aldilà/l’incoscienza di giocare con la singolarità/oltre la quale non si ritorna/e la natura poi si deforma/spinse gli antichi per mare e i robot nello spazio) o padri del residuo sentimento agrodolce cantato nel commiato di “Simulatore” (l’immagine di te sfarfalla solo un po’/in mezzo a quegli splendidi robot/e rigenera analogiche memorie di una storia/dall’umana preistoria).

I’ve seen the future, brother: is it murder? Non è detto.

Il sottotesto non è un messaggio di speranza, non una fiduciosa ripartenza: è un salvare il salvabile, con l’augurio di non replicare nel prossimo altrove la stessa disfatta che ci attende al di qua della linea del tempo.

Fuga per la sconfitta? (Manuel Maverna)