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IMAGINE DRAGONS
Il loro nuovo, attesissimo sesto album ''Loom'' uscirà il 28 giugno prossimo

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news - rassegna stampa

12/06/2015   ORNETTE COLEMAN
  E' morto il papà del free jazz: aveva 85 anni

Ora che Ornette Coleman se n’è andato, stroncato a 85 anni a Manhattan da un arresto cardiaco, niente meglio dei titoli dei suoi dischi più importanti ci ricorda/spiega il ruolo assoluto avuto dal sassofonista di Forth Worth, Texas, nella storia del jazz, e della musica tutta del Novecento. Ornette è stato «Something else!!!», qualcosa d’altro rispetto a quanto sentito fino a quell’lp del 1958. Ha scolpito, inseguito, sognato «The shape of jazz to come», la forma del jazz che verrà (’59). Ha inaugurato, fondato, avviato un genere e una rivoluzione in «Free jazz: a collective improvisation» (1960). E potremmo continuare così con «Tomorrow is the question», «Change of the century», «This is our music», «The art of the improvisers»... Innovatore del calibro di Parker e Gillespie, ha cambiato la faccia di un sound già destabilizzato da Monk e Mingus, ha aperto una strada, ma non si è fatto guru o maestro, è rimasto genio inquieto alla ricerca di un altro suono. Filosofo anarchico, spesso ha visto divergere la teoria e la pratica delle sue note, «free», libere davvero, nel senso musicale oltre che politico, contaminate nelle diverse stagioni dal country blues, dai suoni etnici dei Masters of Joujouka o dei virtuosi delle launeddas, dal funky e dal r’n’b, dal rock, dalla fusion. La sua rivolta risale alla fine degli anni Cinquanta quando, con il gemello d’anima Don Cherry, inaugurò il Five Spot a New York e si esibì con un sax alto di plastica bianca. «Alcuni se ne sono andati ancor prima di finire il cocktail, altri sono rimasti ipnotizzati, altri litigavano a scena aperta», scrisse il critico George Hoefer. «I musicisti be bop suonavano cambiamenti, non suonavano movimenti. Io cercavo di suonare idee, cambiamenti, movimenti e note non trasposte», spiegò lui. I puristi non gli perdonarono l’azzardo ma lui inanellò quella serie storica di lp che definirono il bi/sogno di «free» che c’era nel jazz. Storica rimane l’improvvisa diversità di quel «Free jazz» affidato a un doppio quartetto delle meraviglie: Coleman, Cherry, Billi Higgins e Scott La Faro da una parte, Eric Dolphy, Freddie Hubbard, Charlie Haden e Ed Blackwell dall’altra. Archie Shepp ricordava quanto blues ci fosse nel suo suono solo apparentemente scomposto, adattato «alle classiche melodie africane non armonizzate, che sono poi il retaggio più arcaico e prezioso della nostra musica». Il suono del popolo nero cercava e ritrovava le sue radici, lontano dall’approdo tutto intellettuale dell’estenuato free europeo prossimo venturo. La sua «atonalità» era quella dei vecchi cantanti di blues rurale, la sua «armolodia» poggiava su chiare basi ritmiche prima di rompere con la tradizione. Gli incontri con Yoko Ono, James Blood Ulmer e Jamaladeen Tacuma, ma anche con Jerry Garcia dei Grateful Dead, Pat Metheny, persino con il Lou Reed di «The Raven», andarono in questo senso. All’alto e al tenore, alla tromba, al violino più o meno elettrico non sacrificò mai lo spartito: sembrerà un paradosso, ma il padre del jazz libero è stato compositore assoluto, firmando arie leggere e fluide, inni dirompenti, deflagrazioni collettive. «Lonely woman», «The blessing», «Turnaround», «Rejoicing», «Blues connotation», «911» e «Song X» sono il suo contributo autorale più importante alla musica afroamericana che volle allontanare dall’intronata routine degli standard. Dal sax, soprattutto dall’alto, cercava il suono della voce umana, cavandone note sghembe e strane. Riascoltandola nel giorno del «coccodrillo», non tutta la sua discografia regge all’usura del tempo, ma fortissimo impatto ebbero lavori come «Skies of America», suite con orchestra dalle concezioni armolodiche, il gruppo Prime Time, la colonna sonora scritta e non usata per il film «Chappaqua suite». La sua diversità («Someting else!!!») nascondeva sotto i cappelli e gli abiti a quadrettoni e dai colori sgargianti la concezione di un jazz come musica perennemente in movimento, capace di meritargli il premio Pulitzer come i riflettori di «Saturday night live». (Il Mattino)